Questa è la storia dimenticata delle prime donne chirurgo, una
manciata di pionere a cui era preclusa la pratica in sala operatoria.
Dopo “Fiore di roccia”, Ilaria Tuti ritorna al romanzo storico
con “Come vento cucito alla terra”. La Tuti descrive una storia
di emancipazione femminile, di ambita uguaglianza che passa
attraverso la rinuncia, la sofferenza e la libertà. Louisa Garrett
Anderson e Flora Murray aprono la prima unità chirurgica gestita
esclusivamente da donne, per uomini, in zona di guerra. Il primo
conflitto mondiale è esploso e queste dottoresse ed infermiere
volontarie lasciano l’Inghilterra, troppo rigida e bacchettona per
accettare un tale cambiamento per andare a Parigi, dove apriranno il
primo ospedale inglese in terra francese. Le Lady Doctors sono donne
medico, ma la loro attività è limitata alla cura di donne e
bambini. Per questo quando i soldati arrivano feriti e malconci
nell’ospedale parigino della Croce Rossa sembrano più spaventati
dalle dottoresse donne che dai colpi ricevuti. I soldati urlano,
invocano un medico uomo, un medico vero. Questo libro descrive
benissimo la storia dei soldati e delle loro ferite, le loro
amputazioni (fisiche e mentali), la loro invalidità che troverà
accoglienza, conforto e guarigione in questo ospedale gestito solo da
donne. E proprio in questo contesto, è citata la storia dei soldati
ricamatori, reduci di guerra che
in ospedale venivano aiutati ad accettare le
disabilità e a superare il trauma del combattimento ricamando; per
la sua ripetitività gestuale, il ricamo è una
attività particolarmente terapeutica e meditativa;
simbolicamente, rappresenta una sutura dell’anima,
come un kintsugi di filo che va a lavorare
dove più abbiamo bisogno, e dalle nostre ferite emotive crea
cicatrici splendide, che diventano parte di noi-non devono essere
nascoste, ma integrate nel bellissimo disegno della nostra identità.
Spesso questi ricami erano venduti per raccogliere
fondi a supporto degli ex soldati. Oggi, si possono vedere i lavori
di questi soldati in diversi musei del mondo, oltre che in chiese e
istituzioni, come per esempio il paramento d’altare della famosa
St. Paul’s Cathedral di Londra.
Alla fine della trama un Zeppelin silenziosamente attacca Londra e
l’ospedale è in grave pericolo. Così per curiosità sono andata a
documentarmi storicamente sulla storia di questi dirigibili, prima
che arrivassero gli aerei.
Il 31 maggio del 1915 il
dirigibile tedesco Zeppelin LZ38 inizia a lanciare bombe sulla
capitale inglese, contravvenendo il proposito di qualche mese prima
del Kaiser Guglielmo di non bombardare agglomerati urbani. I tedeschi
sono i primi a servirsi dei bombardamenti aerei sui civili come
strategia di guerra e questo primato viene realizzato con i
leggendari dirigibili Zeppelin, spostando così il teatro di guerra
dal fronte vero e proprio ai luoghi della vita quotidiana, suscitando
terrore e incredulità nella popolazione. Un giovane Churchill, da
qualche anno Ministro della Marina inglese, intuendo il potenziale
offensivo dei dirigibili decide che il modo migliore per prevenirne
gli attacchi sia colpirli nei loro stessi hangar in Germania. La
prima missione tedesca sull'Inghilterra, però, risale al 10 gennaio
1915, quando tre Zeppelin partono dalla Germania per bombardare i
docks di Londra, ma l’azione é imprecisa e i tre aerostati
sganciano a casaccio il loro carico su Yarmouth. La missione servirà
comunque come test per il successivo bombardamento di Londra e farà
puntare sul dirigibile come nuova arma strategica. I dirigibili
causarono più panico e terrore che danni reali. Agivano di notte,
erano silenziosi e volavano troppo in alto per la contraerea, ma non
erano tecnicamente molto affidabili e i raid notturni poco precisi.
Il primo attacco su Londra con
lo Zeppelin LZ38 sgancia 120 bombe incendiarie uccidendo 6 persone.
In totale durante il conflitto furono usati 84 dirigibili, di cui 30
abbattuti o persi in incidenti, che effettuarono circa 51 incursioni
sull’Inghilterra sganciando più di 5000 bombe e uccidendo 557
persone.
«La ricerca emozionante di un dipinto che è al tempo stesso la ricerca di se stessi.» – Der Freitag –
Berlino, 2017. La ventisettenne Hannah
sta finendo il dottorato all’università, ma ha la sensazione che la sua
vera vita non sia ancora iniziata. Sua nonna Evelyn, invece, a quasi
cento anni ha condotto un’esistenza piena e non si è mai tirata indietro
di fronte al dolore. Una lettera spedita da uno studio legale
israeliano, però, cambia tutto. Evelyn sarebbe l’erede di un bene
artistico trafugato durante il regime nazista e ora perduto: un quadro
di Vermeer raffigurante una ragazza vestita di blu che ammira il
crepuscolo alla finestra.
Dopo questa rivelazione, sono tanti gli interrogativi che si affollano
nella mente di Hannah, ma la nonna si rifiuta di rispondere. Così, la
ragazza inizia una ricerca personale sulle tracce del dipinto, che la
condurrà agli anni Venti e alla sua bisnonna Senta, la madre di Evelyn:
una giovane donna testarda e intrappolata in un matrimonio senza amore
che all’improvviso decide di lasciare tutto, anche sua figlia, per
essere libera. Tuttavia, tempi bui sono in arrivo in Germania e in
Europa, ed essere liberi richiederà sacrifici ancora più grandi.
Un indimenticabile romanzo della memoria, una meravigliosa saga
famigliare tutta al femminile, ispirata alla storia vera dell’autrice.
La ragazza dal vestito blu di Alena Schröder, romanzo pubblicato da Sperling & Kupfer.
Apprezzo i libri che corrono su due
piani temporali, specie se uno dei due parla della seconda guerra
mondiale quindi capirete bene che con questo libro io ci sia andata a
nozze.
Hannah ed
Evelyn, nipote e nonna, e la storia della loro famiglia, della guerra e del presente in cui entra il passato e la restituzione dei beni requisiti agli ebrei. Un quadro misterioso di uno degli
artisti più incredibili del Seicento: ragazza vestita di blu che ammira
il crepuscolo alla finestra di Jan Vermeer. Autore di Ragazza col
turbante, La lattaia, L’astronomo per citare i più famosi. Si sa che
durante la seconda guerra mondiale sono state migliaia le opere d’arte
trafugate dai nazisti (si parla di oltre seicentomila), molte di queste
non sono mai state ritrovate, la restituzione volontaria dovrebbe essere
un dovere morale, ma si sa che l’etica non è uguale per tutti. La
ricerca di questo quadro è centrale nella storia e porta a vedere tanti
lati di chi ha vissuto quel periodo storico portando a riflettere su
come venissero vissute in modi diversi certi fatti storici che per noi
restano inspiegabili e condannabili senza se e senza ma. Quando i tedeschi consegnano le schede per catalogare tutti gli oggetti e i mobili posseduti negli appartamenti degli ebrei, ho sentito un piccolo dolore nel cuore, immaginando la pietosa scena che hanno dovuto passare quelle povere persone. Stessa sorte per tutto quello che possedevano nelle botteghe e in questo caso il nonno aveva una galleria di quadri. In questo libro seguiamo la vita di questa famiglia dagli anni 20 al 1950 per poi
spostarci al 2017 quando Hannah inizia a farsi domande sul passato
della sua famiglia e non trova in Evelyn un riscontro, come
se volesse celare dei segreti, che sono troppo difficili da accettare.
Se vi piacciono i libri con una forte
componente storica, se amate le storie che parlano di donne, di scelte e
di arte, non potete lasciarvi sfuggire La ragazza dal vestito blu di Alena Schröder.
Cenni storici
Beni
razziati durante la Shoah, il quadro su restituzioni e
risarcimenti
Il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato di recente un
rapporto che valuta i progressi compiuti da 46 paesi che,
siglando la Dichiarazione Terezin, si sono impegnati alla
restituzione o il risarcimento per le proprietà illecitamente
sequestrate durante la Shoah. Il rapporto di 200 pagine è stato
commissionato dal Justice for Uncompensated Survivors Today
Act.
Secondo il rapporto, “le comunità ebraiche in
tutta Europa continuano a dover affrontare sfide importanti per
recuperare o ricevere un risarcimento per le proprietà comunitarie e
religiose confiscate, distrutte o nazionalizzate nella Shoah o
nell’epoca comunista”. “In Polonia, per esempio, circa la metà
delle 5.500 rivendicazioni di proprietà ebraiche presentate in base
a una legge di restituzione del 1997 rimangono irrisolte, e circa la
metà delle rivendicazioni sono state respinte”.
Rispetto alla situazione italiana, il rapporto
ricorda tra l’altro come la cosiddetta Commissione Anselmi nel 2002
pubblicò in merito al tema dei risarcimenti e restituzioni un
rapporto i cui “mostrano, in generale, che i beni sono stati
restituiti ai sopravvissuti espulsi che hanno presentato richieste di
risarcimento, ma i sopravvissuti o gli eredi che non hanno presentato
richieste di risarcimento non sono stati rintracciati e risarciti in
modo proattivo.
La Commissione ha raccomandato alle autorità
italiane di indagare sui beni non reclamati al fine di identificare i
superstiti e gli eredi che non hanno presentato domande di
indennizzo, e ha evidenziato in particolare la necessità di indagare
sui beni non reclamati conservati presso la Cassa Depositi e
Prestiti, la banca d’investimento italiana che fornisce servizi di
finanziamento per gli investimenti del settore pubblico in Italia. Le
istituzioni governative non hanno, nella maggior parte dei casi, dato
seguito a queste raccomandazioni”, sottolinea il rapporto, che cita
dall’altra parte l’impegno dell’attuale governo a fare passi
avanti con la costituzione del “Comitato per il recupero e la
restituzione dei beni culturali” che si avvale della collaborazione
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ed
anche quando la restituzione avviene si tratta pur sempre di beni
svalutati, e di natura patrimoniale, magari ottenuti iussu iudicis ,
mai del grave danno morale sofferto per un lungo tempo.
Le
restituzioni hanno dato adito ad un contenzioso altissimo, nella
maggioranza dei casi risoltosi in danno ai perseguitati.
Due
sono i più importanti documenti ufficiali sulle restituzioni,
entrambi composti ad opera delle Istituzioni: la Relazione conclusiva
(Rapporto generale) della Commissione istituita nel 1998
per
iniziativa del Presidente del Consiglio Giuliano Amato e presieduta
dall’ on. Tina Anselmi.
La Commissione Anselmi fu istituita d’
intesa con l’ Unione delle Comunità israelitiche italiane con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° dicembre
1998 con il compito di «ricostruire le vicende che hanno
caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di
cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati».
Ovviamente
la prima parte della relazione ricostruisce, oltre alla normativa, le
diverse attività di persecuzione, corrispondenti a quella che ho
definito la prima fase della persecuzione (1938-1945), raccogliendo
gli oltre 8.000 decreti di confisca, relativi alla spoliazione dei
beni mobili e immobili appartenenti agli ebrei, e poi tutte le
vicende che avevano lasciato una traccia storica di limitazione o
privazione della proprietà privata; si è dedicata all’analisi
dell’attività dell’EGELI, l’ente deputato alla amministrazione
dei beni confiscati, ed ha analizzato i provvedimenti di restituzione
con i loro effetti parziali.
Il
rapporto dedica alcuni capitoli alle restituzioni, che,
sostanzialmente, si possono condensare in tre punti: l’operato
dell’ EGELI, la sorte dei depositi, dei titoli e degli effetti
bancari e la sorte dei rapporti assicurativi che avevano coinvolto
singoli ebrei o famiglie ebree.
Essenziale per realizzare
i propositi di restituzione avrebbe dovuto essere la nuova attività
dell’ EGELI, che si svolse dal 1944 fino al 1967.
Ancor
più complicata la restituzione dei beni che l’ EGELI aveva in
amministrazione provenienti dalle confische effettuate sotto la
Repubblica Sociale Italiana, data la scarsità di documentazione e la
scomparsa degli originari titolari, colpiti , anche personalmente,
dalla drastica normazione che la RSI aveva introdotto nelle province
sotto la sua giurisdizione, in collaborazione con i nazisti.
Il
problema più complesso riguarda i beni degli ebrei deportati
deceduti senza lasciare eredi.
L’ Unione delle comunità
israelitiche aveva richiesto maggiore trasparenza all’ EGELI, anche
per agevolare sia gli eredi sia l’acquisizione alle Comunità dei
beni privi di titolare, ma queste iniziative ebbero scarso successo:
l’opacità della gestione dell’ EGELI, la ritrosia degli Istituti
bancari, l’inefficienza degli uffici ministeriali allungavano i
tempi di restituzione, anche al fine di far compiere i tempi della
prescrizione per poter incamerare i beni confiscati. Dopo inutili
insistenze dell’ Unione delle comunità israelitiche, e molte
polemiche sfociate anche in Parlamento, l’ EGELI fu soppresso con
l. 4 dicembre 1956 n. 1404, e nel 1957 fu posto in liquidazione.
Nel
Rapporto Anselmi particolare attenzione è data a due settori nei
quali le attività patrimoniali delle famiglie ebraiche si erano
concentrate: le banche e le assicura I conti bancari furono in parte
regolati, come si è detto, dall’ EGELI tramite gli Istituti
bancari , e questi, per converso, restituirono agli eredi che avevano
potuto documentare i loro diritti successori i depositi e gli altri
investimenti effettuati dai loro congiunti scomparsi a causa della
Shoah.
Il
fenomeno è assai esteso e coinvolge in particolare gli istituti di
credito svizzeri presso i quali gli ebrei italiani in pericolo, già
negli anni precedenti la leggi razziali, avevano iniziato ad
esportare i loro risparmi per salvaguardare quella parte del
patrimonio liquido che poteva essere sottratto ad eventuali
congelamenti o confische, provvedimenti che poi effettivamente furono
introdotti dalle leggi razziali e dalle spoliazioni. Il tema è
spinoso, ed ancora attuale, come riportavano gli organi di stampa di
qualche anno fa. Risulta infatti che nelle banche svizzere si
registrano migliaia conti di cittadini elvetici e di stranieri non
movimentati da oltre settanta anni.
Verso la fine degli anni ’90
le banche elvetiche, grazie all’intervento e alla negoziazione
seguita al Congresso Ebraico Mondiale, furono costrette a risarcire
gli eredi delle vittime della Shoah con oltre 1 miliardo e 200
milioni di dollari.
Si
sa che sotto tortura gli ebrei rinchiusi nei campi di sterminio
furono costretti a rivelare gli estremi dei conti bancari nei quali
avevano effettuati i loro depositi, in modo da consentire ai nazisti
di poter effettuare le loro rapine con la connivenza delle banche.
Nel
Rapporto Anselmi il problema è esplicitato in tutte le sue
articolazioni: la difficoltà di reperire la documentazione, la
capillare distribuzione delle banche su tutto il territorio nazionale
(nell’ annuario della Confederazione fascista del settore sono
censite per gli anni 1939-1940 ben 2704 banche comprensive delle
casse rurali), la prassi di effettuare depositi in libretti postali,
il ricorso ai libretti al portatore, lo smarrimento delle chiavi
delle cassette di sicurezza, la successione nella proprietà delle
banche sono tutti fattori che hanno ostacolato il compimento di una
puntuale,
precisa, completa ricognizione del fenomeno, e quindi
la restituzione ai titolari.
La
Commissione Anselmi tramite l’ ABI aveva preso contatto con le
banche italiane, per accertare se negli archivi storici da esse
organizzati fossero presenti documenti o notizie riferiti ai depositi
inattivi.
I
risultati ottenuti accorpando i dati con quelli derivanti
dall’archivio storico del Ministero delle Finanze hanno consentito
di identificare diverse posizioni presso molteplici istituti bancari,
ma la Relazione non riferisce i risultati delle istanze : né se gli
eventuali eredi siano stati informati né se gli eredi richiedenti
siano stati soddisfatti nelle loro legittime aspettative.
Risultati
assai deludenti sono pervenuti invece dalle compagnie di
assicurazione.
In
parte, per il fatto che all’epoca storica considerata, le compagnie
esercitavano il ramo danni, ma in modo assai marginale il ramo vita,
in parte per l’assenza di archivi storici, attesa la legittima
distruzione della documentazione decorsi i dieci anni dalla
accensione della polizza.
RECENTEMENTE…
giugno
2021
La
restituzione delle opere trafugate dai nazisti: un tema attuale nella
Francia contemporanea
La
notizia che per la prima
volta sarà una donna a dirigere il Museo del Louvre di Parigi
ha fatto il giro del mondo. Laurence
des Cars,
attualmente direttrice del Musée d’Orsay, guiderà dal primo
settembre 2021 un museo che già da secoli segna la storia. Il Louvre
aperto 228 anni fa, nel 1793, fu arricchito di opere grazie alle
campagne napoleoniche, quando fu compiuta una spoliazione e furono
prelevati dipinti, sculture e oggetti d’arte, in particolare dai
Paesi Bassi e dall’Italia; la collezione si arricchì notevolmente
quando, durante il periodo della Repubblica di Vichy, furono
confiscate moltissime opere alle famiglie ebraiche perseguitate.
Des Cars, nata
nel 1966, si occupa
da tempo del problema della restituzione delle opere d’arte
trafugate dai Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale,
tema di grande attualità nei musei francesi. Proprio nel marzo di
quest’anno il Museo d’Orsay ha restituito agli eredi di Nora
Stiasny, donna
ebrea austriaca deportata e uccisa nel 1942 insieme alla madre, al
marito e al figlio, il dipinto Rose
sotto gli alberidi
Gustav Klimt, realizzato nel 1905 e sottratto nel 1938, con
l’Anschluss.
Alla morte dell’acquirente il dipinto, nel 1966, l’opera fu
acquistata dalle Galerie Peter Nathan di Zurigo e quattordici anni
dopo, nel 1980, fu comprata dal Museo d’Orsay. Per rintracciare gli
eredi di Stiasny, oltre al lavoro del Museo d’Orsay, è stato utile
l’intervento del Museo del Belvedere di Vienna: la ricerca è
durata due anni e le maggiori difficoltà sono state trovate, perché
i nazisti distrussero molti documenti a riguardo; probabilmente,
anche la famiglia della proprietaria non possedeva memoria né
informazioni in merito al possesso dell’opera.
Questo non
è l’unico caso del genere in Francia, i cui musei conservano
ancora numerose opere rubate dai nazisti,
in parte recuperate dalla Germania e dall’Austria e non ancora
riconsegnate a chi le possedeva: per questa ragione, nel 1999 fu
istituita la Commission
d’indemnisation des victimes de spoliations(CIVS),
che si sarebbe occupata di ricercare questi proprietari.
L’obiettivo
della nuova direttrice è in linea con una delle missiondel Louvre degli ultimi anni: alla
conclusione del 2017, il famoso museo parigino ha
aperto due sale,
situate al secondo piano dell’ala Richelieu, con un totale di
trentuno dipinti,
tutti trafugati a famiglie di origini ebraiche durante il secondo
conflitto mondiale,
precisamente tra il 1940 e il 1945. Le opere sono corredate sia dalla
sigla MNR (“Musei nazionali recupero”), sia da un testo che si
concentra sulla loro provenienza e sull’importanza della
restituzione agli eredi dei legittimi proprietari.
Nel febbraio
2018, viene restituito il dipinto Trittico
della crocifissione,
attribuito al fiammingo Joachim Patinir, agli eredi di Hertha e Henry
Bromberg, che furono costretti a vendere la collezione quando
dovettero pagare un viaggio per fuggire dalla Germania nazista verso
la Svizzera e poi ancora verso gli Stati Uniti, tra 1938 e 1939.
Le difficoltà
nel tracciare la provenienza delle opere d’arte, soprattutto in un
periodo come quello della Shoah, in cui i proprietari emigrarono o
purtroppo non sopravvissero, rendono
necessario un lavoro di ricerca di documenti, di ricostruzione del
percorso di queste opere negli anni.
Per questo motivo, il Ministero della Cultura francese ha istituito
nel 2019 un ente che si dedicasse a questi studi e proprio i Musei
d’Orsay e dell’Orangerie hanno cercato di lavorare in tale
direzione. In relazione a questo, alla fine del 2019, il Museo del
Louvre ha assunto Emmanuelle
Polack, una figura
di esperto d’arte
che si occupasse del mercato artistico francese durante l’occupazione
tedesca, per
individuare le acquisizioni perpetrate alle vittime della Shoah,
durante la prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso.
"Chiusi per recita
scolastica", il cartello sulla vetrina della libreria a Napoli. I
negozianti «Non rinunciate mai a questi momenti per lavoro»
La foto del messaggio, postata sui social, ha superato i 150 mila like, inondata di commenti di stima
«Chiusi per recita scolastica... Questi giorni non torneranno e noi non possiamo perderli».
Dopo il Covid abbiamo capito una cosa, quasi tutti.
Che dedichiamo troppo poco tempo alla famiglia e troppo al lavoro.
E quindi ci sono messaggi come questi, che ci ricordano quanto l'amore e i sentimenti e la famiglia hanno bisogno di più del nostro tempo e della nostra attenzione.
Premetto che della Gazzola ho letto un solo libro che tra l’altro mi è
piaciuto tantissimo, “Un tè a Chaverton House”.
Quindi quando mi è capitato questo tra le mani, ho detto, perché no.
Ho capito che è praticamente l’ultimo libro di una serie che parla
dell’Allieva, e quindi ho saltato tutta la prima parte della storia, da
cui comunque si capisce qualcosa leggendo il testo presente.
Ho faticato un pochino ma tutto sommato mi sono divertita e malgrado la
leggerezza, di sottofondo è un giallo.
Trama: Alice e Claudio sono tornati da Washington (e intanto mi sono
persa che erano partiti). Per Claudio è l'occasione della vita: la Wally
sta per andare in pensione e la corsa alla successione in qualità di
direttore dell'istituto sembra aperta e lui appare come la persona
ideale per assurgere al ruolo di nuovo «Supremo» dell'istituto. Intanto
Alice – ora medico legale praticante a tutti gli effetti – si trova
coinvolta non in uno ma in ben due casi che presto si dimostrano in
grado di mettere alla prova il suo ben noto fiuto investigativo. Da un
lato, l'incidente stradale in cui è vittima una giovane studentessa di
un prestigioso collegio e dall'altro, un bambino smarrito che non parla e
di cui non si sa nulla.
Da qui partono le ipotesi investigative e i fatti che portano alla
soluzione dei due casi, guarda caso collegati… non faccio spoiler, ma lo
consiglio.
Magnifico giallo che mi ha tenuta incollata fino alle 4 di mattina... E alla fine il confine tra il male e il bene è veramente ingannevole.
Intanto un magnifico libro ambientato in Italia, nelle nostre montagne e quindi con un approccio psicologico diverso dai soliti gialli stranieri.
Scritto veramente bene con un ritmo incalzante che non riesci proprio a staccare. Bellissimo
La trama in grandi linee...
“Il ritrovamento delle ossa di Claudia, bambina scomparsa ventidue anni fa, richiama a Borgo Cardo, nell’Appennino emiliano, Sara Romani, chirurgo oncologico di stanza a Bologna. Per lei il funerale è una pericolosa occasione di confronto con un passato da cui è fuggita appena ne ha avuto la possibilità. Al ritorno nella routine bolognese, il desiderio è quello di dimenticare. I segreti, gli amici d’infanzia rimasti inchiodati a una realtà carica di superstizioni e pregiudizi, le ossa di una compagna di giochi riemerse da un tempo lontano.
Finché scompare un’altra bambina: Rebecca.
Sara ha avuto giusto il tempo di conoscerla. Dopo il funerale Rebecca le ha curato una piccola ferita secondo l’antica tradizione della segnatura e adesso Sara è in debito con lei. Un legame che sa di promessa. Un filo rosso che unisce il passato di Sara, schiava della convinzione di dover salvare tutti, con un incubo appena riemerso dall’oblio.
Mentre il paese si mobilita per ritrovare Rebecca, la donna è costretta a tornare.
È l’inizio di una discesa negli inferi dell’Appennino, un viaggio doloroso nelle storie sepolte nel tempo attraverso strade, boschi, abitazioni e volti che lei aveva imparato a cancellare dalla memoria, e che ora diventano luoghi neri in cui cercare una bambina innocente.
Quale oscuro mistero si cela dietro la secolare tradizione delle segnatrici?
In una sfrenata corsa contro il tempo per scoprire chi ha rapito Rebecca e riuscire a salvarla prima che sia troppo tardi, Sara dovrà scendere a patti con una parte di sé messa a tacere ventidue anni prima.
...
Veramente buona lettura, lo consiglio vivamente.
Chi sono le segnatrici? ... Sono guaritrici di montagna. Esistono realmente le segnatrici. Sono figlie di una tradizione secolare che si è propagata nel tempo, grazie al passa-parola tra segnatrici anziane e segnatrici più giovani che imparano, a loro volta, le parole ed i segni.
Una tradizione che nasce essenzialmente pagana e che acquisisce delle connotazioni pseudo religiose durante gli anni dell’Inquisizione. Poiché, per non essere bruciate sui roghi, le guaritrici cambiavano le loro formule in preghiere. La pratica della segnatura esiste tuttora fra i monti dell’Appennino. In altre regioni e… fra le montagne del Friuli, seppure in un’altra forma ancora.
Dal fascino vintage e l’aspetto spesso barocco, i budini sanno ancora dire la loro nel mondo della pasticceria. Sapevate che non sono sempre stati dolci? Ecco come nascono e come si preparano.
L’origine dei budini...
Il termine potrebbe derivare dal latino botellus, salsiccia, da cui con buone probabilità si è arrivati al francese boudin: in effetti, in origine i budini erano ben diversi da come li immaginiamo oggi. Si trattava, infatti, di impasti preparati nel budello di un animale, avvolto poi in un telo e messo in uno stampo, infine fatto bollire. Non si sa con precisione quale sia stato il primo budino della storia, ma quel che è certo è che già in epoca romana si usava questa tecnica per cucinare altro insieme al piatto principale, preparando tutto in un unico recipiente. Nel volume del Trecento “Il Ménagier de Paris” si possono leggere le ricette per il boudin blanc di salsiccia e il boudin noir, una specie di sanguinaccio; le prime preparazioni simili a quelle attuali iniziano a comparire solo nel Settecento, quando creme cotte e mousse diventano diffuse sulle tavole dei ceti più abbienti. Serviti nelle coppe o sul piatto, i budini rientrano oggi nella macro-categoria dei dolci al cucchiaio, che comprende molte tipologie di dessert: in qualsiasi caso, l’abitudine di servire dolci da mangiare con il cucchiaio era già diffusa al tempo di Alessandro il Grande, quando si consumavano coppe di neve fresca e frutta, antenate dei moderni sorbetti.
I budini e la gelatina
Morbidi, gelatinosi, talvolta trasparenti e ripieni di frutta, al cioccolato, farciti o cosparsi di zucchero da caramellare: la tradizione dei budini è ampia e variegata, e abbraccia moltissime culture gastronomiche. Elemento fondamentale per preparare alcuni tipi di budini è la gelatina: un tempo si utilizzava un brodo di ossa, concentrato e fatto freddare, oggi invece si utilizzano dei sottili fogli essiccati, da ammollare in acqua e aggiungere alle preparazioni, o fiocchi da aggiungere a caldo nei composti. La gelatina comincia a essere impiegata in cucina a partire dal II secolo d. C., e diventa onnipresente nei ricettari rinascimentali delle classi aristocratiche perché considerata un bene di lusso. Col tempo si è poi trasformata in un prodotto alla portata di tutti, tanto da rappresentare una delle principali derrate di cui fare scorta durante le guerre napoleoniche dell’Ottocento e durante la guerra d’Algeria del 1830, perché ricca di proteine. Per realizzarla, infatti, occorre il collagene degli animali, in particolare quello dei tessuti connettivi e delle ossa di suini, bovini e, in passato, anche delle lische dei pesci (è conosciuta, infatti, anche come “colla di pesce”, per via di un’antica procedura originaria della Russia, dove la gelatina veniva fatta con la vescica natatoria dello storione). Ma ci sono anche altri prodotti che hanno un potere gelificante e addensante, come per esempio l'agar agar, che deriva da un'alga rossa, la gomma xantana, e anche l'amido di mais.
Sono moltissimi i budini della pasticceria internazionale, di seguito i 10 più celebri e diffusi. Forse non rientrano tutti tecnicamente nella categoria, ma si tratta comunque di preparazioni dolci, morbide ma compatte.
Aspic
Il termine indica una pietanza fredda composta da carne, pesce o verdura racchiusi in un involucro di gelatina, che in francese significa “aspide” (il nome è probabilmente legato alla forma degli stampi di una volta, che ricorda quella di un serpente arrotolato). Inventore ufficiale della ricetta è lo chef di Napoleone, Marie-Antoine Carême, che la annovera fra gli chaud-froids (letteralmente “caldo-freddo”), delle preparazioni cucinate calde ma servite fredde. Scenografico e vistoso, l’aspic è stato uno dei piatti cult degli anni ’80 e inizio ’90, spesso nella variante dolce alla frutta. Prepararlo è semplice, basta solo avere un po’ di pazienza e attendere i tempi di addensamento della gelatina: punto forte del piatto è la trasparenza che permette di intravedere gli ingredienti all’interno e creare così effetti colorati e originali.
Bavarese
Non lasciatevi fuorviare dal nome: la bavarese non è nata in Germania ma nella Francia dell'Ottocento, da dove si è poi diffusa negli altri Paesi grazie alla bravura e la fama dei maestri pasticceri d'Oltralpe. Un dolce ricco a base di latte, zucchero, uova, panna fresca e gelatina, ispirato alla crema inglese - preparazione dagli ingredienti molto simili - ma più denso e simile a un budino. Bianca nella versione classica, può essere anche preparata con il cioccolato, le fragole o altra frutta di stagione.
Biancomangiare
Con questo termine oggi si pensa immediatamente a un dessert a base di mandorle, ma durante il Medioevo il biancomangiare era semplicemente un piatto di colore bianco, sia dolce che salato, destinato ai ceti più abbienti. Per prepararlo erano necessari ingredienti come latte, mandorle, riso, ma anche lardo o petto di pollo. Plausibile la teoria secondo cui la ricetta sarebbe nata in Francia con il nome di blanc manger, ma oggi è uno dei vanti della cucina italiana, particolarmente legato alla Sicilia, la Sardegna e la Valle d’Aosta. Ne parla anche Pellegrino Artusi, che indica le seguenti dosi: “Mandorle dolci con tre amare, grammi 150. Zucchero in polvere, grammi 150. Colla di pesce in fogli, grammi 20. Panna, o fior di latte, mezzo bicchiere a buona misura. Acqua, un bicchiere e mezzo. Acqua di fior d’arancio, due cucchiaiate”.
Bonèt
La pasticceria piemontese è sontuosa e raffinata, e il bonèt non fa eccezione. Una versione primordiale di questo budino al cioccolato veniva preparata (senza cacao) tra le Langhe e il Monferrato già nel Medioevo come portata finale dei banchetti più sfarzosi. Latte, uova, amaretti e zucchero erano gli ingredienti principali a quel tempo: è solo nel Settecento che il bonèt inizia a essere prodotto con il cioccolato, trasformandosi nel dessert godurioso che tutti conosciamo. Il nome deriva dal cappello tondeggiante che ricorda la forma dello stampo in cui veniva preparato, detto “bonèt ed cusin”, ovvero “cappello da cucina”.
Crème brulée
Forse non è proprio un budino, ma la consistenza di questa crema densa è molto simile: la prima ricetta scritta nei libri di cucina francese compare nel 1691 nel volume “Cuisinier royal et bourgeois” dello chef François Massialot, che cita una preparazione un po’ diversa, con un disco caramellato aggiunto alla fine in superficie. Il successo del dolce – consacrato anche dal film “Il favoloso mondo di Amélie” – è diventato col tempo sempre più internazionale, raggiungendo un po' tutto il mondo, a cominciare dall’America, dove venne addirittura servito da Thomas Jefferson alla Casa Bianca. Negli anni ’50 e ’60 era immancabile nelle riviste di cucina e ricettari statunitensi, ma il vero boom ci fu dopo che uno dei più famosi e raffinati ristoranti di New York, Le Cirque, lo inserì nel proprio menu. La crema bruciata ha iniziato così a fare il giro dell’America, fino a diventare un vero trend, dando vita a gelati, donuts, cupcakes e dolci di ogni tipo “al gusto di crème brulée”. Il punto di forza? La crosticina superiore fatta con zucchero bruciato con l’aiuto di un cannello.
Crema catalana
Simile, ma dalla storia ben diversa, è la ricetta della crema catalana spagnola. Secondo la leggenda furono le monache catalane a inventarla in occasione della visita del vescovo: in origine doveva essere un budino, ma il risultato era troppo liquido e così cosparsero dello zucchero caramellato caldo in superficie per camuffare l’errore. A differenza della preparazione francese, la crema catalana si caratterizza per la presenza della cannella e si prepara con solo latte, senza aggiunta di panna; il dessert spagnolo, infine, viene cotto in un pentolino mentre la crème brulée in forno a bagnomaria.
Crème caramel
Anche in questo caso non ci sono particolari informazioni circa l’origine del dessert: del resto, già greci e romani consumavano abitualmente dolcetti fatti con uova e latte, dalla consistenza densa e compatta. Rintracciarne la nascita esatta, quindi, non è facile: le pietanze si sono evolute nel tempo a seconda delle tradizioni locali e i cambiamenti sociali, e mai come nel caso del crème caramel i pareri sono contrastanti. Molti ritengono si tratti di una specialità portoghese, ma il nome francese potrebbe suggerire altre origini: in qualsiasi caso, stiamo parlando di un dolce goloso fatto con uova, latte e zucchero, senza utilizzo di gelatina o altri addensati. Il tutto ricoperto da delizioso caramello. Cugino emiliano del dolce è il fiordilatte bolognese, preparazione di antiche origini nata probabilmente per conservare latte e uova prima dell’invenzione del frigorifero. Una ricetta appartenente, quindi, alla cultura contadina, dagli ingredienti e il procedimento pressoché identici a quelli del crème caramel.
Flan
Nella versione dolce o salata, i flan francesi sono preparazioni versatili e adatte a ogni occasione. In pasticceria si realizzano solitamente con latte, uova e vaniglia, mentre il comparto salato propone più varianti. Morbidi e compatti, questi sformatini sono infatti ideali da servire a fine pasto oppure, se fatti con verdure o formaggi, come sfizioso aperitivo. Evoluzione dolce ancora più golosa è quella del flan parisienne, un guscio di fragrante pasta sfoglia che racchiude l’impasto di latte e uova, messo in forno a compattare.
Panna cotta
Altro simbolo della cucina anni '80, fine pasto perfetto dopo una cena in pizzeria, la panna cotta è uno dei dolci più diffusi in Italia. Golosa e candida, la si può gustare in purezza o arricchita con sciroppi, glasse, frutta o cioccolato. Non ci sono molte fonti circa la sua nascita, ma si tratta di un dolce tradizionale piemontese, secondo i racconti popolari nato a inizio Novecento grazie a una signora ungherese residente nelle Langhe. Bisogna attendere gli anni '60 prima che lo chef Ettore Songia metta per la prima volta la ricetta nero su bianco la ricetta. Storia e aneddoti a parte, la panna cotta è un dessert semplice a prova di dilettante: veloce e pratico, può essere impreziosito con ingredienti diversi a seconda dei gusti personali, servito in unico stampo da tagliare a fette oppure in tante piccole monoporzioni.
Pudding
Con il termine pudding in inglese ci si riferisce a molte preparazioni: tortini di pane e crema oppure budini più morbidi e gelatinosi. Pietanze dalla storia antica: la prima comparsa della ricetta nella letteratura europea risale addirittura all’800 a.C. con l’Odissea di Omero, ma secondo gli storici della gastronomia britannica la pietanza ha fatto sempre parte dell’alimentazione degli inglesi. Nel tempo hanno vissuto momenti di grande fortuna: per esempio nel Medioevo, quando i banchetti si fecero più sfarzosi, i pudding cominciarono a essere molto comuni tra le tavole nobiliari, tanto che nel 1407 per l’insediamento del vescovo Clifford venne preparata una gelatina a forma di castello, con un diavolo e un prete al centro di un fossato di crema. I pudding continuarono nel tempo a farsi conoscere per tutto il Paese.
Le spezie esotiche che arrivano
giornalmente dalle Indie Orientali e dalle Americhe, le casse di arance
dolci e limoni amari dalla Sicilia, le albicocche dalla Mesopotamia,
l’olio d’oliva da Napoli, le mandorle dalla valle del Giordano…
prelibatezze al mercato. Ma qualche inglese sa cucinare con cibi del
genere? Ripenso al mio tempo in Francia e in Italia, a tutte le
prelibatezze che mi sono passate per la lingua. La mia mente torna al piccione arrosto, e di nuovo sono in Francia... i vasetti di rillette con quell'aroma di aglio, i prosciutti disossati e rivestiti di una patina gialla di pangrattato, i sanguinacci arrotolati come serpenti, le terrine e i patè, le salsisse di Lione e di Arles, le guance di salmone alla genovese, centinaia di tipi di formaggi, i meloni profumati, le albicocche al miele... Scuoto la testa e riconduco i miei pensieri ai piccioni... per l'imbottituta serve anche un pezzettino di burro e forse è il caso di passarlo prima nel prezzemolo tritato o nel pepe di Caienna?
La cucina inglese di Miss Eliza
Sono entrata in questo libro in punta di piedi.
All'inizio è la storia di una famiglia caduta in disgrazia e costretta a lavorare e parallelamente il racconto di estrema povertà di gente di paese. Ecco qui la fame si tocca con mano. Ti entra dentro le ossa e senti la sofferenza di quei tempi, reale e così lontana da noi oggi.
Poi è arrivata la cucina. La passione del cucinare direi e la descrizione minuziosa di ingredienti e spezie in cui ti sembra di sentirne il profumo. Si, l'odore dei piatti e anche un innesco di voglia di fare e cucinare. Sono ricette di altri tempi e molto lontane dal mio modo di mangiare. Lavorando cucino poco e faccio solo piatti veloci. Anche non dover organizzare mai pranzi o cene negli anni mi ha impigrito non poco e lascio ad altri della mia famiglia il compito di cucinare ricette più elaborate.
Mi piace la sorellanza che si crea in questa cucina e soprattutto il riscatto di donne sole e indipendenti.
Consiglio la lettura per una paura rilassante.
Ovviamente è una storia vera, o meglio l'inizio del racconto di una storia vera. Il manuale "Modern Cookery for Private Families", della poetessa Eliza Acton fu pubblicato
per la prima volta nel 1845, destinato a sovvertire gli schemi dei
classici libri di ricette e a influenzare tutte le successive
generazioni di scrittori di cucina.
Perchè il libro parla di questo. Una ragazza che ama profondamento cucinare e decide di scrivere un libro di cucina, diverso da quello dei tempi ... e a quanto pare, ci riesce.
Molte delle ricette le furono fornite da amici, come descritto anche nel libro. Modern Cookery divenne
molto popolare, ne furono stampate diverse edizioni e rimase il libro
di cucina di riferimento fino alla fine del secolo. Rispetto ai ricettari
pubblicati fino a quel momento, per la
prima volta venivano elencati con precisione ingredienti e dosi, tempi
di cottura e possibili criticità di ogni ricetta.
Se poi vogliamo considerare l'avvento di un periodo storico con difficoltà economiche, in cui diventò più difficile avere un cuoco in casa e il
compito di cucinare divenne mansione della padrona di casa, al
massimo coadiuvata dalle donne di servizio. Insomma davvero un grande aiuto sociale e culinario. Oltretutto il manuale influenzò
profondamente la tecnica di scrittura dei ricettari successivi.
Inoltre questo libro è anche la storia di donne che scrivevano di poesia e di teatro e tanto dovevano faticare per essere riconosciute, apprezzate e soprattutto pubblicate.
Dal lontano 2005 ho iniziato questa saga di vampiri-sesso-umani e come una droga ogni volta che entro dentro un nuovo libro mi sento in pace con me stessa, come se entrassi in un porto sicuro.
Ieri ho iniziato il 18^ libro e come per magia ha dissipato tutto il dolore che mi portavo dentro dal pomeriggio.
Non un dolore fisico ma un profondo dolore nell'anima che non mi dava pace.
Succede
La serie "La confraternita del Pugnale Nero / Black Dagger Brotherhood" è così composta:
1.Dark Lover, 2005 (Dark Lover. Un Amore Proibito/Il Risveglio)
2.Lover Eternal, 2006 (Lover Eternal. Un Amore Immortale/Quasi Tenebra)
3.Lover Awakened, 2006 (Lover Awakened. Un Amore Impossibile / Porpora)
4.Lover Revealed, 2007 (Lover Revealed. Un Amore Violato /Senso)
5.Lover Unbound, 2007 (Lover Unbound. Un Amore Indissolubile /Possesso)
6.Lover Enshrined, 2008 (Lover Enshrined. Un Amore Prezioso/Oro Sangue)
7.Lover Avenged, 2009 (Lover Avenged. Un Amore Infuocato / Riscatto)
8.Lover Mine, 2010 (Lover Mine. Un amore Selvaggio / Tu sei mio)
Ci sono posti vicino Roma che non si girano mai abbastanza,così ho approfittato e ad agosto ho visitato Subiaco. Monastero di Santa Scolastica, Chiesa di San Francesco, cascate e il Bellissimo Sacro Speco di San Benedetto.
Quando si entra dentro la storia è sempre cibo per l'anima.
Visita guidata e tempo per lasciarsi affascinare da tanto splendore.
Anche un po' di giorni di mare, con passeggiate all'alba con la mia Candy, letture e colazioni in riva al mare.
Il quaderno dell'amore perduto
Valerie' Perrin
Ero titubante e prevenuta su questa autrice di cui ancora non capisco la fama (ho letto cambiare l'acqua ai fiori). Comunque ho capito che ha la particolarità di creare il giallo nel romanzo, svelando all'ultimo il senso del libro con colpi di scena.
Ho trovato questo libro molto bello e ci sono entrata dentro vivendo con i personaggi le sensazioni. A tratti dovevo interrompere per riprendermi. Comunque mi è piaciuto e visto il tema trattato magari non è per tutti, quando si tratta di leggere di anziani in case di cura.
Io non so se ognuno di noi ha un piatto "coccola", come lo chiamo io, cioè una ricetta che è in grado di metterci in pace con noi stessi e nello stesso tempo darci la sensazione di esserci fatta una coccola ... la mia, è la pasta burro e parmigiano. Forse penserete che sia una ovvietà, ma non è così.
Ho passato periodi in cui era una minestrina con il formaggino o spaghetti pomodoro fresco e basilico.
Adesso invece sono gli spaghetti o le fettuccine burro e parmigiano con pepe se mi va.
Invece da bambina erano i maccheroni o le penne il formato di pasta che si faceva in casa. E ricordo questo piatto con molta tenerezza. Era il piatto di quando stavamo male o semplicemente ci andava.
Devo dire che mi infastidisce molto che il mio piatto preferito sia soprannominato "la pasta dei cornuti" solo perchè fino a pochi anni fa per un uomo
vedersi servire questa pietanza era una vera e propria offesa. Luogo comune, perchè questa ricetta è tutt'alto che semplice. Troppo burro stomaca e poco burro è secca o sciapa e mantecare con l'acqua di cottura è il segreto che la rende cremosa e unica. Solo pochi anni fa ho scoperto la ricetta delle fettuccine all'Alfredo"... che a quanto sembra è molto famosa all'estero, soprattutto in America. Ovviamente con doppio burro e la fettuccina assolutamente ignorante... almeno a mio gusto.
La felicità è fatta di piccoli momenti ma sono consapevole di una cosa, dovendo decidere da sola il quando e il come, mi godo il momento. Non devo ascoltare lamentele di alcuno, non rubo tempo o compagnia, semplicemente sono io. Dopo anni in cui dopo la separazione sono stata male perchè avevo solo storie sbagliate, ho capito che la vita è migliore qundo non hai storie.
Per tutti gli amici che ho perduto nella separazione io ero solo la moglie di Marco.
Invece adesso sono Elisa, e essendo io stessa un piccolo mondo, non sono l'appendice di nessuno, e dovrebbe essere così per tutti. Poter essere se stessi in qualsiasi momento seguendo il proprio io.
Non sono propriamente egoista, ma stanca si. Stanca di essere l'aspettativa di qualcuno o il suo ripiego, stufa di ascoltare lamentele e ordini. Stanca di vivere la vita di qualcun'altro per acconterare e compiacere.
E' tutto molto complicato, ma conoscere se stessi e amarsi è un bellissimo viaggio da fare ancor prima di essere in due. Io ho fatto questo percorso al contrario ma solo adesso capisco quanto sia stato importante sbagliare e capire.
Sul destino non mi pronuncio, è ancora un mistero per me, ma ricordo molto bene quando ho messo la mia vita nelle mani di un estraneo (lo sono tutti al di fuori di te) e sono stata molto male per questo.
Mi imbatto su una rivista in un articolo che mi pone la bambola di
Barbie in una prospettiva che non avevo mai considerato.
Per me bambina e nei miei ricordi, la Barbie è stata semplicemente
una bellissima bambola bionda e con gli occhi azzurri a cui potevo
cambiare anche i vestiti, spesso cuciti da mia mamma. Nessuna sega
mentale, nessuna imitazione, semmai ammirazione e un po’ di
invidia, soprattutto quando poi arrivo’ anche la casa di Barbie che
io non ebbi mai.
Comunque tornando sull’articolo, una scrittrice si chiede se
davvero la bionda di plastica non abbia fatto seri danni alle menti
delle bambine???!! Le proporzioni corporee irrealistiche delle
Barbie hanno causato complessi sul proprio corpo. Davvero le bambine
sono state traumatizzate dalle sue proporzioni?? Mah, io non ho avuto
mai questa percezione. Ma sono degli anni ‘60 e quindi forse è un
problema che si è rivelato dopo, tanto che la Mattel ha dovuto
cambiare le proporzioni fisiche della famosa bambola, facendola più
morbida.
Body positivity, si dice adesso.
Ma sarà che sto cazzo di politically correct stà a rovina
pure le bambole e le bambine?!!
Tutto omologato e guai a non
traumatizzare!! Boh. Sarò io, ma questa cosa non finirà bene.
Me lo sento.
In una era di influencer su Instagram e in tutto il mondo on line, la
Barbie è il mostro da combattere.
Non sarà che noi bambine eravamo più felici nella semplicità del
gioco senza queste stronzate.
Aspetterò con ansia il prossimo anno con l’uscita del film e
finalmente potrò farmi traumatizzare da una Barbie in carne e ossa…
macchina rosa compresa.
Che poi sul politically correct due cosette le vorrei dire. Mi
è capitato un fatto che ha lasciato una bella scia di sangue nel mio
cuore, dolore e delusione. Tre anni fa circa, quando si andava tutti
al cinema, nei posti davanti a me, quattro ragazzi cominciano a
giocare con i pop-corn. Cestelli da 15 euro che volavano e spargevano
pop-corn sui sedili e per terra. Mi guardo nei posti vicini per
vedere reazioni o reazioni. Tutti zitti. Alieni mi dico io. In
pratica sono l’unica ad essere intervenuta, sgridando queste due
coppie di ragazzi che si sono messi a ridere e si sono spostati in
fondo alla sala, prendendomi in giro. Non c’è stato nessuno che è
intervenuto in mia difesa e quando sono entrati i ragazzi di sala li
ho denunciati e fatti chiamare dal direttore. Il silenzio della sala
mi ha fatto un male pazzesco e tutt’oggi ci penso. Soprattutto
penso che non siamo più partigiani. Subiamo tutto con la paura e non
si reagisce più. Il 25 aprile non possiamo più festeggiarlo, perché
noi ai partigiani non siamo degni nemmeno di allacciargli le scarpe.
Sai quando compri un libro e dalla copertina senti che sarà un libro carino, una lettura estiva... e invece scopri che il libro è molto più bello di quello che pensavi e oltretutto ti prende anche la storia per un fondo giallo che non ci sta male.
Non posso spoileare la trama ma se volete passare un pomeriggio in piacevole compagnia senza annoiarvi vi consiglio questa lettura estiva... un romanzo che è anche un giallo, certo non una capolavoro, ma come ho detto nel titolo... una piacevole sorpresa.
Non conoscevo questa scrittice, mi intriga e mi piace.
Cercherò altro su di lei.
La scrittura è fresca con quel qualcosa di italiano che mi manca quando leggo romanzi perennemente stranieri. Tutto inizia a Milano ...e quindi anche se mi fa sorridere, per me è una novità.
La felicità ha un nome? Perchè quando riesco a leggere nel silenzio e nella natura sento di sfiorarla leggermente. Ombra, vento, uccelli e il mio cane che riposa vicino a me. Chissà se il paradiso è così o simile!!
C'è voluta una puntata di "Cold case" - "Casi irrisolti" per farmi capire una cosa che non avevo mai saputo, valutato o condiserato, e cioè il fatto che Elvis (mio grande idolo da ragazza) sia stato un bianco che aveva cantato e divulgato musica nera... Rock'roll.
Ho ascoltato i suoi dischi per ore e ore, 33 giri e 45 giri. Innamorata e che dire dei suoi film, consumati e visti e rivisti...
eppure mai avevo considerato lo sconvolgiemento storico e sociale che deve essere stato per il mondo dei bianchi, vedere i ragazzi, o meglio dire i figli, ballare e cantare come i neri.
Da italiana ho avuto un fondo di ingenuità in questo, ma ignoravo quelle che erano le basi della società americana di quel periodo e sono cresciuta con semplicemente il bello di quelle musica e di un bellissimo ragazzo, da essere così bello da sembrare finto.
Invece a 55 anni mi trovo a imbattermi in questa riflessione, in questa realtà storica che non solo avevo ignorato ma che mai mi aveva sfiorato.
Chissà quante cose ancora ignoro... e la bellezza di scoprire verità è sempre dietro l'angolo.
Niente è scontato e la meraviglia è sempre dietro l'angolo.
Questa è la famosa storia della vecchietta che non voleva morire... perchè in fondo c'è sempre qualcosa da imparare nella vita.
Ricordo ancora quello che la musica di Elvis faceva al mio sangue... e ai miei piedi che volavano sulle sue note. Bellissimo