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martedì 28 febbraio 2017

Il Sapore del successo



Una commedia sulla passione per la cucina pensavo, e invece racconta la storia dell’arrogante, ribelle e folle chef Adam Jones. Un vero rockstar dei fornelli da 2 stelle Michelin che nel giro di poco tempo perde tutto; ex enfant terrible della ristorazione parigina, famoso per l'improvvisazione e la sua continua ricerca, distrugge la sua carriera per uso di droghe. Dopo un lungo periodo di disintossicazione (!!!ma chissenefrega....)  fa ritorno a Londra, determinato a redimersi. (mah!!!) Con l’apertura di un ristorante di lusso lo chef punta ad ottenere la terza stella Michelin, e per farlo praticamente tratta male tutti e diventa stronzo doc. Imitiamo pure Gordon Ramsay ma forse  nel mondo ne basta uno così.
Davvero un bruttissimo film, per niente divertente e l'amore per il cibo che dovrebbe farla da padrona è relegato agli ultimi 10 minuti del film. Una angoscia senza fine e davvero un inutile modo di rappresentare la categoria come è stato qualche anno fa con le ballerine nel “Cigno nero” tanto che Carla Fracci uscì dal cinema sconvolta dicendo per l’appunto che il mondo della danza non era questo. Quando si esagera e si trasmette altro, dico io, forse non è proprio da vedere anche se la presenza del sexy Bradley Cooper ha permesso di non pronunciare un vaffanculo a fine film.

La passione che i cuochi mettono nel loro lavoro, con orari massacranti e ritmi ferratissimi, sotto pressione e dentro il caldo di una cucina che talvolta sembra troppo piccola per ospitare tutti non giustifica il modello dello chef stronzo a tutti i costi. Certo c’è il lieto fine… ma che fatica!!!


mercoledì 1 febbraio 2017

CUCINOTERAPIA - Curare, accudire, amare se stessi e gli altri con il cibo

SPAGHETTI DEL CARCERATO


Regalo di Natale da poco finito di leggere. Un bel libro, in un bel formato piccolo, che si legge e si sfoglia con vero piacere, oltre alle ricette che non guastano.

Cucinare fa bene al corpo e all’anima. E fino a qui non ci sono santi.
Ma cosa dire dell’idea che non mi è mai balenata di usarla come cura? Forse se avessi cucinato di più e impastato, manipolando gli ingredienti e ripetendo un atto antico di tutte le donne che cucinano e hanno cucinato, mi sarei evitata gli psicofarmaci, chissà. Vero è che cucinare è un atto d’amore verso gli altri ma anche verso se stessi. In tavola non si porta solo il cibo… In cucina mettiamo in gioco noi stessi, i nostri gusti e il nostro estro oltre al piacere di poter poi condividere. E tramite la cucina proviamo anche sapori e piatti di altre culture, curiosando qua e la. Diciamo un atto di pace che abbatte tutte le barriere culturali.

Recentemente, ancor prima di leggere questo libro in cui c’è un intero capitolo sul cucinare in carcere, mi capitò di assaggiare dei prodotti di forno venduti al mercato dell’altra economia. Tutto buonissimo. Fino ai pacchi di Natale del mio ufficio ordinati direttamente al carcere di Rebibbia. Giuro mai assaggiato un panettone così buono. Su questo libro leggo infatti che la cucina è usata in carcere non solo per insegnare un mestiere ed applicare la formula dell’insegnamento professionale che riqualifica e crea opportunità lavorative nel reinserimento fuori dal carcere, ma crea nicchie di eccellenza e opportunità. Nei stessi giorni mi capita un articolo sul giornale in cui pubblicizzavano l’apertura a Torino del primo negozio fino ad ora on line  (http://www.myfreedhome.it/) dei prodotti venduti nelle carceri da piccoli laboratori e gruppi di detenuti. Dal carcere femminile di Venezia dove vengono preparati con erbe coltivate nell’orto biologico della Giudecca i cosmetici “RioTerà dei Pensieri”, al carcere Lorusso e Cotugno dove si stampano artigianalmente le t-shirt e merchandising. Dal penitenziario di Verbania dove “la Banda Biscotti” produce dolci artigianali e con materie prime scelte, senza coloranti e additivi, alle delizie biologiche della Sicilia prodotte dal carcere di Siracusa…

Che dire, una piacevole lettura. Riflessioni e anche ricette da provare. Consigliato…