Questa è la storia dimenticata delle prime donne chirurgo, una
manciata di pionere a cui era preclusa la pratica in sala operatoria.
Dopo “Fiore di roccia”, Ilaria Tuti ritorna al romanzo storico
con “Come vento cucito alla terra”. La Tuti descrive una storia
di emancipazione femminile, di ambita uguaglianza che passa
attraverso la rinuncia, la sofferenza e la libertà. Louisa Garrett
Anderson e Flora Murray aprono la prima unità chirurgica gestita
esclusivamente da donne, per uomini, in zona di guerra. Il primo
conflitto mondiale è esploso e queste dottoresse ed infermiere
volontarie lasciano l’Inghilterra, troppo rigida e bacchettona per
accettare un tale cambiamento per andare a Parigi, dove apriranno il
primo ospedale inglese in terra francese. Le Lady Doctors sono donne
medico, ma la loro attività è limitata alla cura di donne e
bambini. Per questo quando i soldati arrivano feriti e malconci
nell’ospedale parigino della Croce Rossa sembrano più spaventati
dalle dottoresse donne che dai colpi ricevuti. I soldati urlano,
invocano un medico uomo, un medico vero. Questo libro descrive
benissimo la storia dei soldati e delle loro ferite, le loro
amputazioni (fisiche e mentali), la loro invalidità che troverà
accoglienza, conforto e guarigione in questo ospedale gestito solo da
donne. E proprio in questo contesto, è citata la storia dei soldati
ricamatori, reduci di guerra che
in ospedale venivano aiutati ad accettare le
disabilità e a superare il trauma del combattimento ricamando; per
la sua ripetitività gestuale, il ricamo è una
attività particolarmente terapeutica e meditativa;
simbolicamente, rappresenta una sutura dell’anima,
come un kintsugi di filo che va a lavorare
dove più abbiamo bisogno, e dalle nostre ferite emotive crea
cicatrici splendide, che diventano parte di noi-non devono essere
nascoste, ma integrate nel bellissimo disegno della nostra identità.
Spesso questi ricami erano venduti per raccogliere
fondi a supporto degli ex soldati. Oggi, si possono vedere i lavori
di questi soldati in diversi musei del mondo, oltre che in chiese e
istituzioni, come per esempio il paramento d’altare della famosa
St. Paul’s Cathedral di Londra.
Alla fine della trama un Zeppelin silenziosamente attacca Londra e
l’ospedale è in grave pericolo. Così per curiosità sono andata a
documentarmi storicamente sulla storia di questi dirigibili, prima
che arrivassero gli aerei.
Il 31 maggio del 1915 il
dirigibile tedesco Zeppelin LZ38 inizia a lanciare bombe sulla
capitale inglese, contravvenendo il proposito di qualche mese prima
del Kaiser Guglielmo di non bombardare agglomerati urbani. I tedeschi
sono i primi a servirsi dei bombardamenti aerei sui civili come
strategia di guerra e questo primato viene realizzato con i
leggendari dirigibili Zeppelin, spostando così il teatro di guerra
dal fronte vero e proprio ai luoghi della vita quotidiana, suscitando
terrore e incredulità nella popolazione. Un giovane Churchill, da
qualche anno Ministro della Marina inglese, intuendo il potenziale
offensivo dei dirigibili decide che il modo migliore per prevenirne
gli attacchi sia colpirli nei loro stessi hangar in Germania. La
prima missione tedesca sull'Inghilterra, però, risale al 10 gennaio
1915, quando tre Zeppelin partono dalla Germania per bombardare i
docks di Londra, ma l’azione é imprecisa e i tre aerostati
sganciano a casaccio il loro carico su Yarmouth. La missione servirà
comunque come test per il successivo bombardamento di Londra e farà
puntare sul dirigibile come nuova arma strategica. I dirigibili
causarono più panico e terrore che danni reali. Agivano di notte,
erano silenziosi e volavano troppo in alto per la contraerea, ma non
erano tecnicamente molto affidabili e i raid notturni poco precisi.
Il primo attacco su Londra con
lo Zeppelin LZ38 sgancia 120 bombe incendiarie uccidendo 6 persone.
In totale durante il conflitto furono usati 84 dirigibili, di cui 30
abbattuti o persi in incidenti, che effettuarono circa 51 incursioni
sull’Inghilterra sganciando più di 5000 bombe e uccidendo 557
persone.
«La ricerca emozionante di un dipinto che è al tempo stesso la ricerca di se stessi.» – Der Freitag –
Berlino, 2017. La ventisettenne Hannah
sta finendo il dottorato all’università, ma ha la sensazione che la sua
vera vita non sia ancora iniziata. Sua nonna Evelyn, invece, a quasi
cento anni ha condotto un’esistenza piena e non si è mai tirata indietro
di fronte al dolore. Una lettera spedita da uno studio legale
israeliano, però, cambia tutto. Evelyn sarebbe l’erede di un bene
artistico trafugato durante il regime nazista e ora perduto: un quadro
di Vermeer raffigurante una ragazza vestita di blu che ammira il
crepuscolo alla finestra.
Dopo questa rivelazione, sono tanti gli interrogativi che si affollano
nella mente di Hannah, ma la nonna si rifiuta di rispondere. Così, la
ragazza inizia una ricerca personale sulle tracce del dipinto, che la
condurrà agli anni Venti e alla sua bisnonna Senta, la madre di Evelyn:
una giovane donna testarda e intrappolata in un matrimonio senza amore
che all’improvviso decide di lasciare tutto, anche sua figlia, per
essere libera. Tuttavia, tempi bui sono in arrivo in Germania e in
Europa, ed essere liberi richiederà sacrifici ancora più grandi.
Un indimenticabile romanzo della memoria, una meravigliosa saga
famigliare tutta al femminile, ispirata alla storia vera dell’autrice.
La ragazza dal vestito blu di Alena Schröder, romanzo pubblicato da Sperling & Kupfer.
Apprezzo i libri che corrono su due
piani temporali, specie se uno dei due parla della seconda guerra
mondiale quindi capirete bene che con questo libro io ci sia andata a
nozze.
Hannah ed
Evelyn, nipote e nonna, e la storia della loro famiglia, della guerra e del presente in cui entra il passato e la restituzione dei beni requisiti agli ebrei. Un quadro misterioso di uno degli
artisti più incredibili del Seicento: ragazza vestita di blu che ammira
il crepuscolo alla finestra di Jan Vermeer. Autore di Ragazza col
turbante, La lattaia, L’astronomo per citare i più famosi. Si sa che
durante la seconda guerra mondiale sono state migliaia le opere d’arte
trafugate dai nazisti (si parla di oltre seicentomila), molte di queste
non sono mai state ritrovate, la restituzione volontaria dovrebbe essere
un dovere morale, ma si sa che l’etica non è uguale per tutti. La
ricerca di questo quadro è centrale nella storia e porta a vedere tanti
lati di chi ha vissuto quel periodo storico portando a riflettere su
come venissero vissute in modi diversi certi fatti storici che per noi
restano inspiegabili e condannabili senza se e senza ma. Quando i tedeschi consegnano le schede per catalogare tutti gli oggetti e i mobili posseduti negli appartamenti degli ebrei, ho sentito un piccolo dolore nel cuore, immaginando la pietosa scena che hanno dovuto passare quelle povere persone. Stessa sorte per tutto quello che possedevano nelle botteghe e in questo caso il nonno aveva una galleria di quadri. In questo libro seguiamo la vita di questa famiglia dagli anni 20 al 1950 per poi
spostarci al 2017 quando Hannah inizia a farsi domande sul passato
della sua famiglia e non trova in Evelyn un riscontro, come
se volesse celare dei segreti, che sono troppo difficili da accettare.
Se vi piacciono i libri con una forte
componente storica, se amate le storie che parlano di donne, di scelte e
di arte, non potete lasciarvi sfuggire La ragazza dal vestito blu di Alena Schröder.
Cenni storici
Beni
razziati durante la Shoah, il quadro su restituzioni e
risarcimenti
Il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato di recente un
rapporto che valuta i progressi compiuti da 46 paesi che,
siglando la Dichiarazione Terezin, si sono impegnati alla
restituzione o il risarcimento per le proprietà illecitamente
sequestrate durante la Shoah. Il rapporto di 200 pagine è stato
commissionato dal Justice for Uncompensated Survivors Today
Act.
Secondo il rapporto, “le comunità ebraiche in
tutta Europa continuano a dover affrontare sfide importanti per
recuperare o ricevere un risarcimento per le proprietà comunitarie e
religiose confiscate, distrutte o nazionalizzate nella Shoah o
nell’epoca comunista”. “In Polonia, per esempio, circa la metà
delle 5.500 rivendicazioni di proprietà ebraiche presentate in base
a una legge di restituzione del 1997 rimangono irrisolte, e circa la
metà delle rivendicazioni sono state respinte”.
Rispetto alla situazione italiana, il rapporto
ricorda tra l’altro come la cosiddetta Commissione Anselmi nel 2002
pubblicò in merito al tema dei risarcimenti e restituzioni un
rapporto i cui “mostrano, in generale, che i beni sono stati
restituiti ai sopravvissuti espulsi che hanno presentato richieste di
risarcimento, ma i sopravvissuti o gli eredi che non hanno presentato
richieste di risarcimento non sono stati rintracciati e risarciti in
modo proattivo.
La Commissione ha raccomandato alle autorità
italiane di indagare sui beni non reclamati al fine di identificare i
superstiti e gli eredi che non hanno presentato domande di
indennizzo, e ha evidenziato in particolare la necessità di indagare
sui beni non reclamati conservati presso la Cassa Depositi e
Prestiti, la banca d’investimento italiana che fornisce servizi di
finanziamento per gli investimenti del settore pubblico in Italia. Le
istituzioni governative non hanno, nella maggior parte dei casi, dato
seguito a queste raccomandazioni”, sottolinea il rapporto, che cita
dall’altra parte l’impegno dell’attuale governo a fare passi
avanti con la costituzione del “Comitato per il recupero e la
restituzione dei beni culturali” che si avvale della collaborazione
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ed
anche quando la restituzione avviene si tratta pur sempre di beni
svalutati, e di natura patrimoniale, magari ottenuti iussu iudicis ,
mai del grave danno morale sofferto per un lungo tempo.
Le
restituzioni hanno dato adito ad un contenzioso altissimo, nella
maggioranza dei casi risoltosi in danno ai perseguitati.
Due
sono i più importanti documenti ufficiali sulle restituzioni,
entrambi composti ad opera delle Istituzioni: la Relazione conclusiva
(Rapporto generale) della Commissione istituita nel 1998
per
iniziativa del Presidente del Consiglio Giuliano Amato e presieduta
dall’ on. Tina Anselmi.
La Commissione Anselmi fu istituita d’
intesa con l’ Unione delle Comunità israelitiche italiane con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° dicembre
1998 con il compito di «ricostruire le vicende che hanno
caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni di
cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati».
Ovviamente
la prima parte della relazione ricostruisce, oltre alla normativa, le
diverse attività di persecuzione, corrispondenti a quella che ho
definito la prima fase della persecuzione (1938-1945), raccogliendo
gli oltre 8.000 decreti di confisca, relativi alla spoliazione dei
beni mobili e immobili appartenenti agli ebrei, e poi tutte le
vicende che avevano lasciato una traccia storica di limitazione o
privazione della proprietà privata; si è dedicata all’analisi
dell’attività dell’EGELI, l’ente deputato alla amministrazione
dei beni confiscati, ed ha analizzato i provvedimenti di restituzione
con i loro effetti parziali.
Il
rapporto dedica alcuni capitoli alle restituzioni, che,
sostanzialmente, si possono condensare in tre punti: l’operato
dell’ EGELI, la sorte dei depositi, dei titoli e degli effetti
bancari e la sorte dei rapporti assicurativi che avevano coinvolto
singoli ebrei o famiglie ebree.
Essenziale per realizzare
i propositi di restituzione avrebbe dovuto essere la nuova attività
dell’ EGELI, che si svolse dal 1944 fino al 1967.
Ancor
più complicata la restituzione dei beni che l’ EGELI aveva in
amministrazione provenienti dalle confische effettuate sotto la
Repubblica Sociale Italiana, data la scarsità di documentazione e la
scomparsa degli originari titolari, colpiti , anche personalmente,
dalla drastica normazione che la RSI aveva introdotto nelle province
sotto la sua giurisdizione, in collaborazione con i nazisti.
Il
problema più complesso riguarda i beni degli ebrei deportati
deceduti senza lasciare eredi.
L’ Unione delle comunità
israelitiche aveva richiesto maggiore trasparenza all’ EGELI, anche
per agevolare sia gli eredi sia l’acquisizione alle Comunità dei
beni privi di titolare, ma queste iniziative ebbero scarso successo:
l’opacità della gestione dell’ EGELI, la ritrosia degli Istituti
bancari, l’inefficienza degli uffici ministeriali allungavano i
tempi di restituzione, anche al fine di far compiere i tempi della
prescrizione per poter incamerare i beni confiscati. Dopo inutili
insistenze dell’ Unione delle comunità israelitiche, e molte
polemiche sfociate anche in Parlamento, l’ EGELI fu soppresso con
l. 4 dicembre 1956 n. 1404, e nel 1957 fu posto in liquidazione.
Nel
Rapporto Anselmi particolare attenzione è data a due settori nei
quali le attività patrimoniali delle famiglie ebraiche si erano
concentrate: le banche e le assicura I conti bancari furono in parte
regolati, come si è detto, dall’ EGELI tramite gli Istituti
bancari , e questi, per converso, restituirono agli eredi che avevano
potuto documentare i loro diritti successori i depositi e gli altri
investimenti effettuati dai loro congiunti scomparsi a causa della
Shoah.
Il
fenomeno è assai esteso e coinvolge in particolare gli istituti di
credito svizzeri presso i quali gli ebrei italiani in pericolo, già
negli anni precedenti la leggi razziali, avevano iniziato ad
esportare i loro risparmi per salvaguardare quella parte del
patrimonio liquido che poteva essere sottratto ad eventuali
congelamenti o confische, provvedimenti che poi effettivamente furono
introdotti dalle leggi razziali e dalle spoliazioni. Il tema è
spinoso, ed ancora attuale, come riportavano gli organi di stampa di
qualche anno fa. Risulta infatti che nelle banche svizzere si
registrano migliaia conti di cittadini elvetici e di stranieri non
movimentati da oltre settanta anni.
Verso la fine degli anni ’90
le banche elvetiche, grazie all’intervento e alla negoziazione
seguita al Congresso Ebraico Mondiale, furono costrette a risarcire
gli eredi delle vittime della Shoah con oltre 1 miliardo e 200
milioni di dollari.
Si
sa che sotto tortura gli ebrei rinchiusi nei campi di sterminio
furono costretti a rivelare gli estremi dei conti bancari nei quali
avevano effettuati i loro depositi, in modo da consentire ai nazisti
di poter effettuare le loro rapine con la connivenza delle banche.
Nel
Rapporto Anselmi il problema è esplicitato in tutte le sue
articolazioni: la difficoltà di reperire la documentazione, la
capillare distribuzione delle banche su tutto il territorio nazionale
(nell’ annuario della Confederazione fascista del settore sono
censite per gli anni 1939-1940 ben 2704 banche comprensive delle
casse rurali), la prassi di effettuare depositi in libretti postali,
il ricorso ai libretti al portatore, lo smarrimento delle chiavi
delle cassette di sicurezza, la successione nella proprietà delle
banche sono tutti fattori che hanno ostacolato il compimento di una
puntuale,
precisa, completa ricognizione del fenomeno, e quindi
la restituzione ai titolari.
La
Commissione Anselmi tramite l’ ABI aveva preso contatto con le
banche italiane, per accertare se negli archivi storici da esse
organizzati fossero presenti documenti o notizie riferiti ai depositi
inattivi.
I
risultati ottenuti accorpando i dati con quelli derivanti
dall’archivio storico del Ministero delle Finanze hanno consentito
di identificare diverse posizioni presso molteplici istituti bancari,
ma la Relazione non riferisce i risultati delle istanze : né se gli
eventuali eredi siano stati informati né se gli eredi richiedenti
siano stati soddisfatti nelle loro legittime aspettative.
Risultati
assai deludenti sono pervenuti invece dalle compagnie di
assicurazione.
In
parte, per il fatto che all’epoca storica considerata, le compagnie
esercitavano il ramo danni, ma in modo assai marginale il ramo vita,
in parte per l’assenza di archivi storici, attesa la legittima
distruzione della documentazione decorsi i dieci anni dalla
accensione della polizza.
RECENTEMENTE…
giugno
2021
La
restituzione delle opere trafugate dai nazisti: un tema attuale nella
Francia contemporanea
La
notizia che per la prima
volta sarà una donna a dirigere il Museo del Louvre di Parigi
ha fatto il giro del mondo. Laurence
des Cars,
attualmente direttrice del Musée d’Orsay, guiderà dal primo
settembre 2021 un museo che già da secoli segna la storia. Il Louvre
aperto 228 anni fa, nel 1793, fu arricchito di opere grazie alle
campagne napoleoniche, quando fu compiuta una spoliazione e furono
prelevati dipinti, sculture e oggetti d’arte, in particolare dai
Paesi Bassi e dall’Italia; la collezione si arricchì notevolmente
quando, durante il periodo della Repubblica di Vichy, furono
confiscate moltissime opere alle famiglie ebraiche perseguitate.
Des Cars, nata
nel 1966, si occupa
da tempo del problema della restituzione delle opere d’arte
trafugate dai Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale,
tema di grande attualità nei musei francesi. Proprio nel marzo di
quest’anno il Museo d’Orsay ha restituito agli eredi di Nora
Stiasny, donna
ebrea austriaca deportata e uccisa nel 1942 insieme alla madre, al
marito e al figlio, il dipinto Rose
sotto gli alberidi
Gustav Klimt, realizzato nel 1905 e sottratto nel 1938, con
l’Anschluss.
Alla morte dell’acquirente il dipinto, nel 1966, l’opera fu
acquistata dalle Galerie Peter Nathan di Zurigo e quattordici anni
dopo, nel 1980, fu comprata dal Museo d’Orsay. Per rintracciare gli
eredi di Stiasny, oltre al lavoro del Museo d’Orsay, è stato utile
l’intervento del Museo del Belvedere di Vienna: la ricerca è
durata due anni e le maggiori difficoltà sono state trovate, perché
i nazisti distrussero molti documenti a riguardo; probabilmente,
anche la famiglia della proprietaria non possedeva memoria né
informazioni in merito al possesso dell’opera.
Questo non
è l’unico caso del genere in Francia, i cui musei conservano
ancora numerose opere rubate dai nazisti,
in parte recuperate dalla Germania e dall’Austria e non ancora
riconsegnate a chi le possedeva: per questa ragione, nel 1999 fu
istituita la Commission
d’indemnisation des victimes de spoliations(CIVS),
che si sarebbe occupata di ricercare questi proprietari.
L’obiettivo
della nuova direttrice è in linea con una delle missiondel Louvre degli ultimi anni: alla
conclusione del 2017, il famoso museo parigino ha
aperto due sale,
situate al secondo piano dell’ala Richelieu, con un totale di
trentuno dipinti,
tutti trafugati a famiglie di origini ebraiche durante il secondo
conflitto mondiale,
precisamente tra il 1940 e il 1945. Le opere sono corredate sia dalla
sigla MNR (“Musei nazionali recupero”), sia da un testo che si
concentra sulla loro provenienza e sull’importanza della
restituzione agli eredi dei legittimi proprietari.
Nel febbraio
2018, viene restituito il dipinto Trittico
della crocifissione,
attribuito al fiammingo Joachim Patinir, agli eredi di Hertha e Henry
Bromberg, che furono costretti a vendere la collezione quando
dovettero pagare un viaggio per fuggire dalla Germania nazista verso
la Svizzera e poi ancora verso gli Stati Uniti, tra 1938 e 1939.
Le difficoltà
nel tracciare la provenienza delle opere d’arte, soprattutto in un
periodo come quello della Shoah, in cui i proprietari emigrarono o
purtroppo non sopravvissero, rendono
necessario un lavoro di ricerca di documenti, di ricostruzione del
percorso di queste opere negli anni.
Per questo motivo, il Ministero della Cultura francese ha istituito
nel 2019 un ente che si dedicasse a questi studi e proprio i Musei
d’Orsay e dell’Orangerie hanno cercato di lavorare in tale
direzione. In relazione a questo, alla fine del 2019, il Museo del
Louvre ha assunto Emmanuelle
Polack, una figura
di esperto d’arte
che si occupasse del mercato artistico francese durante l’occupazione
tedesca, per
individuare le acquisizioni perpetrate alle vittime della Shoah,
durante la prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso.
"Chiusi per recita
scolastica", il cartello sulla vetrina della libreria a Napoli. I
negozianti «Non rinunciate mai a questi momenti per lavoro»
La foto del messaggio, postata sui social, ha superato i 150 mila like, inondata di commenti di stima
«Chiusi per recita scolastica... Questi giorni non torneranno e noi non possiamo perderli».
Dopo il Covid abbiamo capito una cosa, quasi tutti.
Che dedichiamo troppo poco tempo alla famiglia e troppo al lavoro.
E quindi ci sono messaggi come questi, che ci ricordano quanto l'amore e i sentimenti e la famiglia hanno bisogno di più del nostro tempo e della nostra attenzione.
Premetto che della Gazzola ho letto un solo libro che tra l’altro mi è
piaciuto tantissimo, “Un tè a Chaverton House”.
Quindi quando mi è capitato questo tra le mani, ho detto, perché no.
Ho capito che è praticamente l’ultimo libro di una serie che parla
dell’Allieva, e quindi ho saltato tutta la prima parte della storia, da
cui comunque si capisce qualcosa leggendo il testo presente.
Ho faticato un pochino ma tutto sommato mi sono divertita e malgrado la
leggerezza, di sottofondo è un giallo.
Trama: Alice e Claudio sono tornati da Washington (e intanto mi sono
persa che erano partiti). Per Claudio è l'occasione della vita: la Wally
sta per andare in pensione e la corsa alla successione in qualità di
direttore dell'istituto sembra aperta e lui appare come la persona
ideale per assurgere al ruolo di nuovo «Supremo» dell'istituto. Intanto
Alice – ora medico legale praticante a tutti gli effetti – si trova
coinvolta non in uno ma in ben due casi che presto si dimostrano in
grado di mettere alla prova il suo ben noto fiuto investigativo. Da un
lato, l'incidente stradale in cui è vittima una giovane studentessa di
un prestigioso collegio e dall'altro, un bambino smarrito che non parla e
di cui non si sa nulla.
Da qui partono le ipotesi investigative e i fatti che portano alla
soluzione dei due casi, guarda caso collegati… non faccio spoiler, ma lo
consiglio.