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lunedì 26 novembre 2018

La casa dei libri

Ultimamente mi accade spesso di essere delusa da un film in cui riverso tante aspettative o al contrario di essere piacevolmente sorpresa da quello che pensavo un film mediocre e si rivela invece un capolavoro.

Ecco questo film è stata una vera delusione oltre che di una noia mortale. Film francese, lento e dove non c'è il lieto fine, al contrario dei film americani.

Ecco diciamo che questo film mi è sembrata la realtà mentre lo sanno tutti che nei film vincono i buoni e mai il contrario. Invece il male vince, pure la jella e pure l'ingiustizia, tanto che alla fine ti chiedi per quale motivo l'autore ha pensato di scrivere un libro così sfigato.

Alla fine ti viene da piangere di rabbia o tagliarsi le vene, fate voi.

venerdì 23 novembre 2018

Le ricette che hanno umili origini

LE ORIGINI DEL CIBO – RICETTE UMILI

Stò leggendo un libro molto interessante che mi ha fatto notare, ricordare e riflettere sul fatto che molti piatti che attualmente mangiamo a casa e cuciniamo o che andiamo a mangiare al ristorante anche a 15-20 euro a porzione hanno in verità origini molto umili, spesso con parti di scarto, che erano prerogativa dei poveri.

La storia del soffritto, come la maggior parte dei piatti napoletani ha una storia umile

Nasce nei quartieri più poveri della città di Napoli, ed è in effetti un insieme di frattaglie di maiale insaporito dal pomodoro e da una generosa spruzzata di piccante e a cui si aggiungono degli aromi a noi molto famigliari come l’alloro, l’aglio e il rosmarino. La stessa formulazione del soffritto, fa capire che la povertà è nel dna di questo piatto, la cui base sono frattaglie del maiale, che  rappresentano la parte meno nobile dei tagli di questo animale, i suoi scarti per l’appunto.
La cottura delle frattaglie inizialmente si faceva con la ‘nsogna, perché l’olio EVO era davvero un lusso nelle case delle famiglie napoletane e ancora oggi viene mantenuta questa modalità di preparazione. Come ci racconta ad esempio la ricetta popolare scoperta dal famoso drammaturgo Ulisse Prota Giurleo, rinvenuta, a suo dire, sul retro di uno strumento notarile, e probabilmente dettata da una certa Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana frequentata, per l’appunto, da legali, dice:
“Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna (strutto) abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna (foglia) di lauro.
Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli (peperoni) rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli (peperoncini piccanti a forma di ciliege) in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento.
Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè Rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna.
Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane.
Placet Etiam Majestati.”
Lo abbiamo definito “un piatto povero” date le sue origini, ma in realtà nella nostra epoca è un piatto che sta riscoprendo dei nuovi albori, perché non solo le frattaglie non sono più largamente utilizzate in cucina dai napoletani, ma anche perché il suo contributo calorico e davvero importante. Un piatto di soffritto da solo può unire primo e secondo insieme,  è un piatto molto ricco e richiede di essere accompagnato da un vino rosso graffiante, possibilmente tanninico e in grado di sgrassare la bocca al suo passaggio.

Ingredienti

  • 2 kilogram. frattaglie di maiale (cuore, milza, polmone, trachea)
  • ½ bicchiere di vino rosso
  • 1 cucchiaio di olio
  • 1 foglia di alloro
  • rosmarino
  • concentrato di peperoni piccanti
  • 100 grams strutto
  • 30 grams salsa di pomodoro
  • 200 grams concentrato di pomodoro
  • sale
  1. Tagliate a pezzettini le frattaglie, lavatele accuratamente e mettele per un paio di ore in un recipiente colmo d’acqua, cambiando di tanto in tanto l’acqua. Quando il sangue sarà completamente sparito, colate ed asciugate i pezzettini. In una pentola molto ampia mettete lo strutto ed il cucchiaio d’olio ed unite i pezzettini di carne. Quando il liquido sarà assorbito, aggiungete il vino e fate evaporare.
  2. Infine aggiungete il concentrato di pomodoro, i 30 gr di salsa di pomodoro diluita in un po’ d’acqua calda, la foglia di alloro, il rosmarino, il concentrato di peperoni piccanti e qualche bicchiere d’acqua. Lasciate cuocere per qualche ora Ed infine aggiungete il sale. A fine cottura, la carne dovrà essere ben cotta ed il sugo non dovrà essere troppo denso.


CODA ALLA VACCINARA

Ricetta tipica della cucina romana povera, nata nell’antico rione Regola dove abitavano i vaccinari, coloro che che macellavano i bovini e trasformavano gli scarti e le viscere in piatti gustosi e genuini. La coda di bue è stufata con verdure e arricchita con uvetta e pinoli. Esistono diverse varianti della ricetta, ma la più ricca ed elaborata è, secondo la tradizione romana, con pinoli, uvetta ed il tocco originale di cacao amaro.

CARBONARA

Classico della cucina romana, preparato con ingredienti popolari e dal gusto intenso. Le sue origini sono tuttora incerte, ma l’ipotesi più accreditata riconduce la sua comparsa nella campagna laziale e abruzzese. In questo caso sarebbe l’evoluzione del cacio e ova che i carbonari dell’Appennino usavano preparare il giorno prima portandolo nel loro tascapane. Il piatto divenne famoso nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Sembrerebbe che i soldati americani arrivati in Italia, combinando gli ingredienti a loro più familiari e cioè uova, pancetta e spaghetti, abbiano dato l’idea ai cuochi italiani per la vera ricetta che si svilupperà più tardi.

AMATRICIANA

La Matriciana (in romanesco) è un condimento per la pasta che ha preso il nome dalla cittadina laziale Amatrice. In origine era la Gricia, piatto piuttosto antico considerato l’emblema della gastronomia pastorale. Il suo nome è probabilmente dovuto al termine con cui i cittadini di Roma indicavano gli abitanti delle zone appenniniche (Grici). Questa ricetta era ed è ancora conosciuta come l’Amatriciana senza il pomodoro, la cui invenzione risale alla fine del diciottesimo secolo. La popolarità del piatto aumenta notevolmente agli inizi del Novecento, grazie agli stretti contatti tra Roma ed Amatrice. Ci sono diverse varianti di questa ricetta, ma ognuna concorda sull’uso di guanciale, pecorino e pepe nero (o peperoncino).


RIGATONI CON LA PAJATA

Ricetta tipica della cucina povera romana, caratterizzata dall’utilizzo del quinto quarto, ovvero le parti meno pregiate delle carni che i vaccinari trasformavano in prelibatezze. La pagliata (in romanesco ‘pajata‘) è l’intestino di vitello di vitello da latte in cui è presente il chimo, che non viene eliminato, poiché conferisce al piatto un sapore unico e inconfondibile.

SPAGHETTI CACIO E PEPE
E’ un primo piatto della cucina romana le cui origini risalgono ad ancora prima dell’introduzione del pomodoro. Nasce dalla tradizione dei pastori e non richiede altri ingredienti a parte il pepe nero, il Pecorino Romano e la pasta. E’ una ricetta molto semplice, ma proprio per questo bisogna avere molta cura per i dettagli durante la preparazione.


GIANDUIOTTO
l 21 novembre 1806 Napoleone Bonaparte a Berlino decretò il cosiddetto Blocco Continentale, che vietava il commercio tra i Paesi soggetti al governo francese e le navi britanniche. Dal 1798, e fino al 1814, il Piemonte fu sottomesso alla dominazione napoleonica. Tra i prodotti maggiormente esportati dagli inglesi (importati dalle loro colonie), vi era il cacao che, a causa dei provvedimenti presi da Napoleone, subì un considerevole ridimensionamento. Cosa gravissima, se si pensa che, a fine Settecento, a Torino si era creata una vera tradizione di cioccolatai, che producevano 350 chilogrammi di cioccolato al giorno. Così, dall’incontro tra il cacao e il Piemonte, e grazie alle restrizioni napoleoniche, nacque il Gianduiotto. Come andò di preciso?
 
La storia. «Una volta provato del cioccolato non si può più farne a meno». Se questo è un concetto valido ai giorni nostri, era già assodato ad inizio Ottocento, quando, nonostante le quantità minori di cacao importate e i conseguenti esosi prezzi, la domanda di cioccolato era elevatissima. E, in Piemonte, urgeva una soluzione per barcamenarsi in questa complicata situazione. Torino conosceva ormai da quasi 250 anni il cioccolato, esattamente da quando Emanuele Filiberto di Savoia era tornato dalla pace di Chateau Cambresis del 1559 con dei semi di cacao. Fino al 1826 in tutto il mondo il cioccolato veniva servito solo ed esclusivamente come bevanda liquida.
Proprio in quel periodo Paul Caffarel, imprenditore di origine valdese, era proprietario di una fabbrica nel quartiere di San Donato a Torino, dove perfezionò una macchina che gli permise di produrre il primo cioccolatino: cioccolato solido ottenuto con la miscela di cacao, acqua, zucchero e vaniglia. Nel 1852 il figlio di Caffarel, Isidore, fuse la fabbrica con quella di un altro importante industriale del settore dolciario, Michele Prochet. La Caffarel-Prochet, per rispondere alle richieste di cioccolato dei torinesi, decise di sfruttare una collaborazione con la vicina Alba, scommettendo sul prodotto più famoso della zona: la nocciola Tonda Gentile delle Langhe. Prochet ebbe l’intuizione geniale di sostituire nell’impasto i pezzetti di nocciola, facendola tostare e macinare, rendendola così simile a una crema, alla quale venivano poi aggiunti il cacao e lo zucchero.
 
Il nome. È il 1865 quando Prochet affina la sua creatura con una forma che viene chiamata «givò», che in dialetto piemontese significa «mozzicone di sigaro», e ricorda una piccola barca rovesciata. Bisognava pensare a un modo per farla conoscere: a quei tempi il carnevale di Torino era parecchio famoso in tutta Italia, e le maschere tipiche della tradizione erano solite lanciare leccornie e dolciumi alla folla. Caffarel sfruttò così la maschera Gianduja per distribuire i suoi Givò 1865 alla gente. Gianduja (tradotto letteralmente: Giovanni del boccale) è una maschera tipica della tradizione piemontese, che incarna lo stereotipo del galantuomo locale allegro e godereccio che partecipa attivamente alla vita cittadina, senza risparmiare opere di carità. La leggenda vuole che la forma del cioccolatino ricordi l’ala del tricorno indossato come copricapo da Gianduja.
Il Carnevale 1869 fu il punto di svolta per il Caffarel 1865 che piacque talmente tanto da mutare il nome in Gianduiotto, con cui divenne famoso. L’altra grande novità introdotta da Caffarel fu quella di distribuire i cioccolatini prodotti non nelle solite scatole, ma singolarmente e, per la prima volta, avvolti in una carta dorata sulla quale era raffigurata la celebre maschera (licenza possibile solo all’azienda, in quanto depositaria del marchio).
Oggi il cioccolatino piemontese viene prodotto in tutto il mondo dalle principali industrie del cioccolato, come Pernigotti, Novi, Fiorio e Peyrano, e solo la Caffarel ne sforna 40 milioni all’anno, ed è conosciuto come eccellenza italiana nell’ambito culinario; viene da sorridere a pensare che, se non ci fosse stato il Blocco di Napoleone, forse non ce lo saremmo mai gustato.
LA CAPONATA
La caponata è un piatto che si prepara in tutta la Sicilia, ma anche in buona parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Ne esistono varie versioni e, anche se tutte partono dalle melanzane fritte, la ricetta della caponata di melanzane cambia in ogni città della Sicilia. Anche se oggi viene servita generalmente come contorno, in origine era considerato un piatto unico.


Quando nasce la caponata

Come avviene per ogni ricetta antica, della tradizione, non è facile capirne le origini. Per capirne la complessità conviene anche ricordare che è un piatto agrodolce, a base di melanzane, con aggiunta o meno di ingredienti, che si prepara in diversi Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Il sapore intenso, al contempo aspro e dolciastro, ricorda peraltro le influenze arabeggianti, molto presenti sull’isola. Le teorie che riguardano la storia della caponata partono tutte dal significato del suo nome. C’è chi lo fa derivare da capone, la lampuga, un pesce pregiato che veniva un tempo preparato in agrodolce; sembra che le persone umili, che non potevano permettersi il pesce, lo abbiano sostituito con le melanzane dando vita alla caponata come la consociamo oggi. Altre teorie partono invece dal fatto che cauponia, o caupone, era la taverna dei pescatori, dove si mangiavano soprattutto verdure, il cibo più a buon mercato. Indipendentemente dal fatto che sia vera l’una o l’atra teoria, resta la diversità delle ricette, che variano a seconda della città della Sicilia in cui ci si ferma ad assaporare il piatto. Oggi la caponata è stata esportata in varie parti del mondo,dagli emigranti siciliani che l’hanno modificata a seconda dei prodotti che hanno trovato.

Ingredienti

  • 400 g di pomodori- 4 melanzane
  • 400 g di sedano a coste
  • 20 g di capperi
  • 60 g di pinoli
  • 1 cipolla
  • 100 g di olive
  • q.b. olio extravergine d’oliva
  • q.b. sale
  • q.b. pepe
  • q.b. basilico
  Ricetta
  Prepara le melanzane: Lava le melanzane e tagliale a tocchetti senza sbucciarle. Mettile in un colapasta e spolvera abbondantemente di sale. Metti al di sopra un piatto con un peso e lasciale spurgare per circa un’ora.
  1. Prepara gli altri ingredienti: Taglia il sedano a tronchetti. Snocciola le olive. Tuffa i pomodori in acqua in ebollizione e poi passali sotto l’acqua fredda. Pelali, privali dei semi e spezzali.
  2. Cuoci la salsa: Scalda l’olio in una padella e fai dorare la cipolla. Unisci i pomodori e lascia cuocere per 10 minuti. Aggiungi sale e pepe, quindi sedano, olive, pinoli e capperi. Lascia cuocere per altri 10 minuti: la salsa deve risultare densa e ben legata.
  3. Friggi le melanzane: Sciacqua le melanzane, asciugale premendole dentro un panno e passa alla frittura, in due o tre volte, in abbondante olio caldo. Quando saranno ben dorate, scola le melanzane e passale su un foglio di carta da cucina.
  4. Componi il piatto: Unisci le melanzane alla salsa, mescola e lascia stufare per qualche minuto.
La caponata si gusta fredda, a temperatura ambiente, cosparsa di basilico.


LA FRASCATULA
La frascatula è una pietanza di umili origini costituita da farina di cereali e di legumi cotta nell’acqua in cui sono state precedentemente lessate differenti verdure che conferiscono gusto e colore alla crema.  Le origini del piatto sembrano risalire alla dominazione romana in Sicilia e, grazie alla semplicità e immediatezza della preparazione, può essere considerato l’antenato dei moderni “quattro salti in padella”.
Dalla cottura di farina di grano e di altri cereali, legumi e verdure, i nostri antenati ottenevano una minestra piuttosto densa chiamata puls da cui deriva il nome di polenta. Esiste un chiaro un riferimento alla frascatula nella “Guerra del Vespro” raccontata dallo storico Michele Amari. Egli, narrando dell’assedio a Messina da parte delle truppe francesi, afferma che le donne siciliane sostenevano i propri uomini durante la battaglia “dispensando pane e polenta, dissetandoli d’acqua, mescendo vini”.
Questa pietanza in Sicilia è particolarmente diffusa nel territorio ennese dove, a seconda del luogo, cambia anche nome. A Troina, ad esempio, si chiama piciocia ed è a base di farina di ceci e cicerchie, mentre ad Enna si chiama paniccia ed è a base di grano. A Leonforte si prepara con la farina della “fava larga”, legume tipico di quelle parti, oggi anche presidio Slow Food. E ancora a Nicosia è nota con il nome di picciotta e si ottiene da una farina di cereali e legumi misti. Ad Agrigento la frascatula viene preparata come un minestrone, dove al finocchietto selvatico si aggiungono cipolla, carciofo e pomodoro. Esiste anche una versione modicana che si differenzia dalle altre perchè è preparata con semola di grano duro e che viene cotta in acqua e condita con olio, pepe e pecorino grattugiato. Nel Trapanese, infine, esiste come variante del couscous. Si chiama frascatuli e si ottiene incocciando la semola come per fare il cous cous, ma i granelli devono essere più grandi. Viene poi cotta e condita con il cavolfiore.
Questo piatto è adatto ai vegetariani e ai vegani perchè viene per tradizione condito con erbe spontanee come cicoria, borragine, bietole, asparagi, finocchietto, cavolicelli ma anche con verdure coltivate, come broccoletti, cavolfiori e cime di rapa.  Nel tempo il miglioramento dello stile di vita ha arricchito il piatto con ingredienti di origine animale come salsiccia, lardo o pancetta. Qui di seguito vi proponiamo la ricetta originaria che prevede solo farina di ceci, grano e altri legumi mista a verdure che potrete variare in base alla stagione.

Frascatula
Ingredienti per 4 persone
Un mazzo di broccoletti
un mazzo di bietole
un mazzetto di finocchietto
400 gr di farina di semola di grano duro
olio extravergine d’oliva
q.b. peperoncino macinato q.b. sale q.b.
Mondate le verdure e fate cuocere le foglie e le parti più tenere in acqua bollente salata. Nella stessa pentola versate la farina di semola poco per volta e mescolate subito in modo da evitare che si formino grumi. Lasciate cuocere continuando a mescolare fino ad ottenere la densità desiderata. Appena pronta conditela con un filo d’olio e un pizzico di peperoncino macinato; servitela ben calda accompagnata da pane abbrustolito. Se ve ne dovesse avanzare, potete tagliarla a fette e friggerla in modo che diventi croccante all’esterno e morbida e gustosa all’interno.

Pancotto con i fagioli

Ricetta

Il pancotto con i fagioli è una ricetta di umili origini, preparata con pane raffermo e fagioli borlotti.
La preparazione è molto semplice e comporta l'utilizzo di pochi ingredienti; è adatta quindi per reciclare il pane avanzato ottenendo una zuppa ricca e saporitissima.
Il pancotto con i fagioli, buonissimo sia caldo sia a temperatura ambiente, è una ricetta adatta per tutte le stagioni.
PANZANELLA
Esistono varie versione sull’origine di questo piatto: alcuni ritengono che l’origine della Panzanella vada rintracciata nell’abitudine dei contadini a bagnare il pane secco, per poi condirlo con le verdure disponibili nell’orto. Altri, invece, pensano che la Panzanella sia nata a bordo delle barche da pesca. Pare, infatti, che i marinai utilizzassero l’acqua di mare per bagnare il pane raffermo e che poi lo consumassero inseme a verdure e ortaggi.
 L’origine del nome
Anche sull’origine del nome di questo piatto non si hanno fonti certe e, se da un lato pare che il nome derivi dai termini pane e zanella, ovvero zuppiera, dall’altro lato è forse il termine “panzana” (che originariamente significava “pappa”), ad aver dato vita al nome del piatto.
 Le versioni del piatto
  Le ricette della Panzanella sono moltissime e variano a seconda della regione d’origine e, in alcuni casi, anche da città a città.
La base classica della ricetta prevedere l’uso di: pane raffermo, cipolla, basilico, cetriolo, pomodoro, olio d’oliva, aceto e sale e, in certi casi, anche tonno e uovo. Tuttavia, ciò che cambia più spesso in base alla regione di provenienza e il modo in cui viene utilizzato il pane raffermo.
Infatti, se in Toscana e nel Lazio il pane viene prima lasciato in ammollo e poi strizzato e spezzettato, in Umbria e nelle Marche si preferisce unire le fette di pane intere ai restanti ingredienti, senza sbriciolarle.
Insomma, resta il fatto che, comunque vogliate prepararla, la Panzanella resta un piatto unico davvero squisito e semplice da realizzare. E non è un caso che, nonostante le sue umili origini, nel corso dei secoli abbia incantato poeti, pittori e personaggi di spicco della società.
Un esempio di ciò è dato da una poesia del Bronzino, pittore del manierismo fiorentino alla corte de’ Medici nel XVI secolo, il quale esprime il suo amore per la Panzanella in questo modo:

Ma chi vuol trapassar sopra le stelle,
Di melodia, v’aggiunga olio e aceto
E’ntinga il pane e mangi a tira pelle.” …
…  “Un insalata di cipolla trita
Colla porcellanetta e citriuoli
Vince ogni altro piacer di questa vita.
Questo trapassa l’amor de’ fagiuoli,
E d’amici, e di donne, che con essi
T’ammazzeresti per due boccon soli.
Considerate un po’ s’aggiungessi
Basilico e ruchetta, oh per averne
Non è contratto che non si facessi”…
[“In lode delle cipolle: capitolo di Agnolo Allori, Detto il Bronzino” ]
Si tratta di un piatto che risalirebbe all’abitudine contadina di bagnare il pane secco e di mischiarlo con le verdure dell’orto. Altri collocano invece la nascita della panzanella a bordo dei pescherecci dove i marinai portavano del pane indurito, qualche pomodoro e bagnavano il tutto con acqua di mare.
Considerata da molti un piatto unico, la panzanella veniva consumata nei campi da quei lavoratori che non riuscivano a rientrare a casa per la pausa pranzo
La preparazione di questa ricetta che appartiene alla cucina del recupero varia da regione a regione, da luogo a luogo e addirittura di famiglia in famiglia.




La cucina di Castel Goffredo è tipica dell'arte culinaria mantovana, profondamente legata ad antiche tradizioni contadine e al forte legame con le zone vicine, soprattutto l'Emilia-Romagna. I piatti caratteristici sono i primi piatti di pasta ripiena, tortelli e agnoli in testa.
  • Primi piatti
    • Tortello amaro di Castel Goffredo – è il piatto tipico locale, risalente ai tempi dei Gonzaga. Questa specialità di pasta ripiena viene cucinata utilizzando l'erba amara (o erba di San Pietro) tipica della zona, infine viene condita con abbondante burro fuso.In onore di questo piatto tipico ogni anno, nella terza settimana di giugno, si tiene la tradizionale festa.
    • Agnolini - piatto tradizionale del giorno di Natale, consumati in brodo di carne.
    • Beèr en vì – nome dialettale del Bere in vino, è una minestra in brodo di carne alla quale viene aggiunto il vino rosso.
    • Tortelli di zucca – piatto tradizionale per la sera della vigilia di Natale, fatto con la sfoglia d'uovo e farcita da un impasto di zucca bollita, amaretti, mostarda, formaggio grana e noce moscata. Sono conditi con burro fuso e una spolverata di grana grattugiato.
    • Gnocchi di patate – vengono preparati con patate lesse, farina, pane secco e conditi con ragù di carne o pomodoro. Piatto tipico del Carnevale di Castel Goffredo, cucinato in onore di Re Gnocco, viene distribuito gratuitamente in piazza l'ultimo venerdì di carnevale.
    • Panàda - piatto unico di umili origini ma molto sostanzioso preparato con pane raffermo, olio di oliva, formaggio grana, brodo.
    • Tridarì – nome dialettale di Pasta trita, è un composto di pasta all'uovo e farina bianca che, fatto seccare, viene tritato e servito in minestra di brodo di carne.


E' innegabile che le ricette che cuciniamo non soddisfano solo il senso della fame ma sono un chiaro tentativo di ritagliare un pezzettino di felicità nella nostra giornata. Quindi le cose sono due. Se attraverso il cibo si arriva ad una qualche felicità dovremmo fare in modo che sia accessibile a tutti e in tal senso possiamo pensare al cibo dei poveri come al cibo di alta classe ma non ha mai senso se non è condiviso se è vissuto in solitudine perchè il cibo è anche un grande mezzo di comunicazione ed è bello riunirsi intorno al tavolo non solo a mangiare ma anche prima a cucinare tutti insieme. Ecco questo credo si sia un po' perso e credo che sia da riaquistare per il sapore di famiglia, di amicizia, di amore e di felicità.

lunedì 19 novembre 2018

Un'idea di felicità


Sabato mattina mi reco in Biblioteca per lasciare alcuni libri che ho letto recentemente. Non ho spazio a casa e quindi di norma o presto ad amiche o regalo in biblioteca comunale. Raramente tengo i libri che ho letto perchè penso che debbano girare di mani in mani per rimanere vivi e continuare il loro viaggio.
Uno dei libri che ho lasciato era erotico e la curatrice della Biblioteca mi ha confessato che è un genere richiesto, rispondendo a delle mie remore sul caso. Le sue esatte parole, veramente, sono state ..."mia cara quì le donne sono tutte assatanate!!"... A vabbè, allora posso lasciare.
Eppoi uscendo mi sono chiesta, ma se le donne sono assatanate è forse perchè non fanno sesso. E perchè non fanno sesso?!!... E quindi è per questo che cercano letture erotiche? O è la nostra fantasia ad essere alimentata da un bel libro che nella realtà non trova riscontri?

Comunque volevo parlare d'altro in verità.
Quando capito in  Biblioteca  vago tra gli scaffali, leggendo i titoli a caso. Lo sò che un libro che mi chiama lo trovo sempre e infatti eccolo qui. Ovviamente è stato lui a scegliere me e non il contrario, e ieri sera l'ho iniziato.
Davvero interessante e bellissimo.
Sepulveda e Petrini parlano di storia, di cibo, di politica, di realtà sociali del sud america e anche se sono all'inizio della lettura c'è un passaggio che mi ha fatto riflettere molto per le analogie attuali con il nostro governo. Parlano del Cile e della legislatura di Pinera. "il governo di destra di Pinera finisce con il rivelarsi il miglior governo di sinistra del Cile"..."il popolo chiede e Pinera fa quello che i governi socialisti non avevano avuto mai il coraggio di fare.

Il libro poi parla di cibo e della felicità nel cucinare e tramandare  le ricette di famiglia, le ricette locali che fanno e hanno la storia di un territorio e di un popolo.

Un libro bellissimo davvero da leggere.

venerdì 16 novembre 2018

Quando finisce l'inverno

Per caso questo libro che mi ha preso per uno strano stile, un po' Bukowski e velatamente malinconico. Mi è piaciuto.
Non avevo mai letto nulla di questa scrittrice.
Comunque questo libro mi è entrato dentro la pelle. Lo stavo aspettando o era lui ad aspettare me.
Mi stà aiutando tantissimo con le sue risposte silenziose e accolgo con grazia le sue parole.
Perchè a volte i personaggi ci assomigliano e vivono quello che vivi tu e come specchi ti rimandano una immagine di te che non vuoi vedere.

Due i protagonisti, Claudio e Cecilia, che sono anche le voci narranti. Lui, quarantenne cubano trapiantato a New Ÿork, è impiegato presso una casa editrice e ha una relazione discontinua con una donna matura. Lei, venticinquenne di origine messicana, è stata cresciuta dal padre e dalla nonna e, dopo l’abbandono della madre, si è trasferita a Parigi per studiare. Lui è eccentrico, narciso e maniacale; lei timida e introversa, con una certa inclinazione per tombe e cimiteri...
Eppure il caso li fa incontrare e innamorare l’uno dell’altra. Ma il cuore vero di tutta la vicenda non sta nel nascente legame sentimentale tra i due, ma nelle loro parabole esistenziali: un incrocio di destini, passioni ed equivoci che segnerà per sempre le loro vite.

mercoledì 14 novembre 2018

Odore di ricordi

Stamattina come quasi ogni mattina ho messo il rossetto Kiko sulle labbra. Non è un rossetto qualunque perchè il suo profumo mi fa visualizzare mia mamma.
Il profumo intenso di quel rossetto mi ricorda i rossetti che usava mia mamma e il ricordo immagine che si visualizza con quel profumo non è dipendente dalla mia volontà.
Questa cosa che succede mi riempie di gioia e di amore e sono felice di sentire mia mamma in quel momento, in quell'istante.
E' un profumo antico che mi riporta alla mia adolescenza e ritrovare quell'odore è stato un grande regalo. Quasi un insperato miracolo. E' come se avessi ritrovato mia madre. Quindi quello che succede sempre con il cibo-ricordo che ci fa visualizzare una emozione cara o una persona del passato si realizza anche con le cose che hanno comunque un odore.

Per esempio a me succede di ricordare mia nonna o meglio casa di mia nonna quando in una pasticceria mi capita di trovare i cannoli con la panna, fatti con le lingue di gatto.
Praticamente introvabili perchè richiedono una lavorazione che i pasticcieri di oggi non sono disposti a fare. La lingua di gatto deve essere lavorata calda per poter fare il cannolo.
Io mi accorgo che cambio completamente espressione.
Mi brillano gli occhi e mi si apre un sorriso estasiato. Sicuramente dall'altre parte penseranno che sia una pazza ma come faccio a spiegare la sensazione di beatitudine e di pace e di calore che mi avvolge in quel momento, in quell'istante in cui il passato entra dentro di me come se fosse ieri come se fosse reale, come se mia nonna fosse ancora viva.

Sicuramente accade a tutti e ognuno ha il suo odore-ricordo di affetto e amore del passato.

martedì 13 novembre 2018

Le lettere di Berlicche

Quando si parla di C.S. Lewis lo si associa sempre alle Cronache di Narnia, libro che ha avuto un enorme successo di pubblico e di critica. Pochi, invece, conoscono la vita dello scrittore gallese, professore a Oxford e Cambridge, convertitosi al cristianesimo all’età di trent’anni. Le lettere di Berlicche, romanzo epistolare, è un sunto teologico del suo pensiero, della sua ricerca del divino, che racconta, in maniera leggera, di vari aspetti delle Scritture. Nel testo, il diavolo veterano Berlicche istruisce suo nipote Malacoda sulle tecniche di tentazione da utilizzare nei confronti del primo “paziente” del giovane diavolo. L’obiettivo è allontanare l’uomo da tutte le soddisfazioni, da tutto ciò che può davvero appagarlo, rendendolo schiavo di un piacere temporaneo e sfuggente: questo è il vero senso della tentazione. Il diavolo stesso è sempre infelice e vive per portare l’uomo alla stessa infelicità, senza toccare la vera pienezza che viene da Dio.

Ho letto questo libro su consiglio di un amico che mi diceva meraviglie e dopo l'interesse per le prime pagine l'ho trovato di una noia mortale e l'ho terminato a fatica e con sollievo.

Consigliato per credenti e non credenti, troviamo nelle parole che Berlicche (diavolo esperto) scrive tra le righe a Malacoda (suo discepolo) riguardo al “Nemico”, a cui dedica lettere capaci di scuotere il cristiano religioso e quello addormentato. Lo scrittore indirizza il lettore in un vero proprio sentiero, parlando della Chiesa, dell’importanza (per il diavolo) di dirigere la malevolenza verso i vicini, verso il “corpo”, verso la religiosità assoluta. Non meno importanti sono le lettere in cui “riprende” l’essere umano parlando della sua incapacità di agire e della sua troppa capacità di giudicare e parlare a vanvera, della superbia e del pensiero che il tempo e il futuro sono nelle sue mani, pane per i denti di Berlicche e Malacoda. Infine lo incoraggia, sempre tra le righe, infonde coraggio nel rimanere saldi, nel rialzarsi, nell’affrontare le difficoltà e di non smarrirsi.

 “Il Diavolo, spirito orgoglioso, non può tollerare di venir canzonato”; così diceva Tommaso Moro. Questo piccolo libro è un vademecum del diavolo, attraverso il quale l’autore presenta l’ardente amore cristiano alla luce della logica più fredda e precisa.

mercoledì 7 novembre 2018

Una scelta interessante

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Non credo sia facile decidere cosa fare quando un medico ti dice che hai un tumore... sai che ti aspetta la chemioterapia o altro e ospedali e dolori e allora a 91 anni decidi di goderti la vita e partire con il camper e visitare l'America oltre a fare tutto quello che hai sempre desiderato vedere, vivendo giorno per giorno.

Questo libro è molto bello e ti fa venire voglia di viaggiare e decidere di fare quello che desideri sempre, senza aspettare che qualcuno ti dica che hai un cancro.

Non lo so non è facile, però mi ha fatto molto riflettere.

Dovremmo dirci ogni sera “ricordati che devi morire”. La memoria della morte o è un’angoscia paralizzante o un profondo esercizio di realtà. Infatti se ciascuno di noi cominciasse a pensare ad esempio che gli rimane solo un anno di vita, farebbe delle scelte ben precise. E allo stesso tempo se pensasse che manchino solo sei mesi, ne farebbe altre ancora più essenziali, e così via fino a pensare che alla fine ci è dato sapere che abbiamo tempo solo oggi, e che nessuno ci dice che domani saremo ancora vivi. La memoria sana della morte rende irripetibile ogni istante della vita. Ogni bacio sarebbe dato come unico. Ogni abbraccio sarebbe dato come unico. Ogni torto sarebbe più facilmente perdonato, perché davanti alla possibilità della morte quanti avrebbero ancora il coraggio di mantenere il punto per questioni francamente banali? Ovviamente tutto questo può sembrare eccessivamente esagerato, ma esasperare un punto di vista ci serve a capire la verità di fondo di una questione. Infatti bisognerebbe portare sempre fino alle estreme conseguenze i nostri ragionamenti e le nostre scelte. È nelle estreme conseguenze che si capisce il vero valore di qualcosa. Tutto è sempre cinquanta e cinquanta. Non solo la possibilità di essere presi o lasciati, ma la possibilità che una malattia ci renda persone migliori o persone peggiori. Che un amore ci renda meno egoisti o più possessivi. Che un dono venga usato per il bene o per il male.

Lei è morta ma il suo blog è ancora visitato e  letto in tutto il mondo.

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La parte emozionante è stata vedere le sue foto di tutti i viaggi che ha fatto e leggere dell'amore che ha distribuito non volendo a tante persone.