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mercoledì 25 marzo 2020

La Locanda dove il mare parla piano

Allora stiamo parlando di un romanzo stile americano, per intenderci.

In questo periodo sto riprendendo in mano vari libri iniziati, insomma ho lavato le tende, rammendato tutti i panni e quindi ci stà no?!!!

La solita storia della ragazza tradita dal marito con una sua collega, che si ritrova con una casa ereditata da una zia che non sapeva di avere in America (che culo!!), una bellissima casa in riva al mare, abitata di 5 vecchietti amici della zia.

Al di là della trama, questo libro ha un grande vantaggio. Ti fa sognare un possibile stile di vita, una scelta di solitudini che si incontrano per creare un gruppo di persone anziane che tutto sommato non si fanno solo compagnia. E' molto simile alla teoria delle comuni, forse in Toscana in qualche casale, qualcuno lo ha fatto o lo fa. Ecco c'è nostalgia di un desiderio di convivenza diverso dallo stare in casa da soli e aspettare di morire. Sicuramente anche la storia di un quadro famoso e plurimiliardario che era in possesso della zia defunta, ti tiene abbastanza ancorato alla suspense della trama, quasi fino alla fine... Quindi per una lettura leggera e appassionata, lo consiglio.

giovedì 5 marzo 2020

I TRENI DELLA FELICITA'


Ho appena terminato questo libro che mi ha letteralmente scaraventato nel passato. Letto con avidità, per leggere cose che ignoravo o sapevo sommariamente e anche per il piacere di credere che non tutto è perduto, se siamo riusciti a fare questo.
Un pezzo di storia italiana che quasi nessuno sembra ricordare più, storia di un’accoglienza e di quanto la cultura e la generosità di un popolo sia o sembra cambiato, da una globalizzazione, che ci ha indurito i cuori.
Resta da chiedersi perché questa storia positiva sia ancora così poco nota e perché gli stessi protagonisti, mostrino una certa difficoltà a parlarne. Umiltà o vergogna? Perchè essere poveri è ancora una vergogna da nascondere, essere ladri invece no.
L’altruismo e la solidarietà oggi sono quasi considerate pecche dell’animo, una specie di pericolosa malattia chiamata “sensibilità”, o “empatia”, una stortura capace di portare il Paese intero alla rovina, vittima di approfittatori e speculatori.
Diventa allora sempre più necessario ricordare di quando queste erano le fondamenta del vivere civile ed erano sentite come un dovere.
Il passato ha ancora qualcosa da insegnarci, se non ce l’ha il presente.


Nell’immediato dopoguerra, un vecchio progetto di solidarietà nato alla fine del 1946 dall’idea del “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli” per ospitare, nutrire e curare i bambini napoletani presso le famiglie contadine emiliane, meno provate dalla guerra, creo’i famosi “treni della felicità”.
L’iniziativa traeva spunto da altre simili: bambini diretti in Emilia-Romagna erano partiti da Roma e provincia fino a Velletri, Cassino e Latina. Nel corso della sua durata, il progetto del Comitato salvò concretamente dalla fame, analfabetismo e malattie oltre 70 mila bambini, con il coinvolgimento anche di altre regioni, come la Toscana, le Marche, l’Umbria e la Liguria.
Confrontandoci con la realtà italiana attuale, questa sembra una favola, “una bella favola iniziata nel lontano 1947”. Racconta di una straordinaria esperienza politica e sociale, voluta, promossa e organizzata dal Partito comunista nei primi anni del secondo dopoguerra, quando Napoli si trovava in una condizione difficilissima. I bombardamenti subìti, le razzie naziste nella parte finale dell’occupazione dopo le Quattro Giornate e la povertà, avevano messo in ginocchio la più grande città del Sud. “Nell’immenso tessuto urbano che rimarrà per mesi privo di energia elettrica e di trasporti pubblici, gli abitanti sloggiati dai bombardamenti si ammucchiano nei ricoveri antiaerei, nelle stazioni della metropolitana e delle funicolari, tra le macerie, nelle grotte, nei cunicoli […]. La scarsezza di acqua costringe donne, vecchi e bambini a lunghissime file dinanzi alle poche fontane pubbliche ancora in funzione. Se il servizio di nettezza urbana è inesistente, tragica è la situazione sanitaria : gli ospedali semidistrutti mancano di farmaci […]. Miseria e vergogna non nascono da una vocazione patologica della gente napoletana, ma semplicemente dallo sfacelo”.



Il Comitato nacque in questo contesto da un nutrito gruppo di intellettuali capeggiati da Gaetano Macchiaroli, insieme ai partiti di sinistra e ad altre forze democratiche e sindacali come l’Udi, Unione Donne Italiane. L’idea era quella di far uscire dalla durezza della condizione post bellica quanti più bambini napoletani fosse possibile, dando loro l’occasione di conoscere, per la prima volta, un’esperienza di vita più adatta alla loro età, accogliendoli in città e regioni del centro-nord del Paese nelle quali avrebbero trovato migliori possibilità di nutrirsi e di crescere. Non che a quell’epoca altrove si navigasse nell’oro, ma almeno si riusciva in qualche modo a mettere insieme il pranzo con la cena.
I bambini furono individuati, “ripuliti”, accompagnati da schede di riconoscimento, forniti di cappotti e indumenti e preparati per lasciare Napoli. Con quali pensieri? I bambini di un tempo ricordano e raccontano la paura della partenza – a nessuno di loro era chiaro dove stessero andando e perché – ma anche la meraviglia dell’arrivo. Coperte rimboccate, stanze calde, giocattoli di stoffa e non di carta, scuole accoglienti, salami appesi alle travi della cucina, uova fresche e latte: ai loro occhi  sembravano dei veri e propri miracoli. Ma sono soprattutto le memorie della famiglia e della cura, scoperti per la prima volta insieme al senso di responsabilità degli adulti nei loro confronti, a essere ricordati con commozione: “A Napoli invece ognuno doveva preoccuparsi di se stesso,” raccontano. Allo stesso modo arrivano le testimonianze delle famiglie affidatarie: “Io stavo per dire, molto a malincuore, di no, pensando alle precarie condizioni, ma fu tale la gioia all’idea di fare del bene”.
Il ritorno a Napoli fu, per tutti, bambini e adulti che si erano presi cura di loro, combattuto: i primi dovettero più o meno consapevolmente arrendersi e rinunciare agli agi non solo materiali ma anche emotivi, spesso richiamati in città dai genitori perché dessero una mano alla famiglia d’origine lavorando; i secondi, invece, dovettero lasciarli tornare in quel contesto che era ancora poverissimo. Eppure non vi è traccia alcuna di pregiudizio verso il Sud o di due diverse “Italie” che non riescono a parlarsi: piuttosto, a emergere sono una serie di legami fortissimi appena sotto la superficie degli eventi, mossi dalla solidarietà e diventati, nel corso del tempo, un bel ricordo e, in alcuni casi, una solida amicizia.


Prima di questo libro, già ero venuta a conoscenza di questo fatto storico, leggendo il bellissimo libro “I comunisti mangiano i bambini”, in cui con orrore ho appreso il grande ostruzionismo e strumentalizzazione politica della Chiesa e dei democristiani verso i comunisti, sempre dipinti come “mangiatori” di bambini. I cattolici denunciarono una “tratta dei fanciulli”, mentre diverse testate contribuirono a diffondere quella che oggi chiameremmo una fake news, e cioè che i piccoli accompagnati ai treni in partenza per l’Emilia sarebbero stati, in realtà, spediti altrove dalla Sicilia, e cioè in Russia. I bambini furono letteralmente terrorizzati da preti e suore e questi poveri bambini partirono con dei traumi enormi. Gli avevano detto che gli avrebbero tagliato le mani e altre cose orribili che facevano i comunisti. Il lavoro di ricerca dei bambini in condizioni più disagiate fu dunque complicato dalla propaganda negativa che raggiungeva le famiglie soprattutto attraverso le parrocchie, ma il risultato, dopo la partenza del primo convoglio, superò ogni aspettativa.
Grazie ai controlli medici fatti ai bambini prima della partenza fu possibile avere una stima precisa di malattie e infezioni e dopo le diffidenze iniziali, si riuscì a coinvolgere anche gli oppositori politici della sinistra come la Pachiochia, una capopopolo monarchica che, una volta appurata la natura benefica dell’iniziativa, si offrì per collaborare in prima persona con gli organizzatori.
Fanno tenerezza tanti episodi raccontati nel libro e vissuti in prima persona da questo bambino napoletano (che deciderà poi di rimanere con la famiglia emiliana), come la meraviglia dei bambini che, davanti alla neve, vista per la prima volta dal finestrino del treno, la scambiarono per ricotta. In un’epoca in cui si era ancora molto distanti per lingua e cultura, si fece un vero miracolo di misericordia.



Ignoravo, storicamente parlando, che quella esperienza del Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli fu riproposta anche in altre situazioni di emergenza, come durante l’alluvione del Polesine nel 1951 e in seguito allo sciopero di San Severo nel 1950, a Foggia, che portò all’arresto di 184 persone, tra cui molte donne costrette a lasciare i propri figli che vennero temporaneamente “adottati” da famiglie del centro-nord Italia.


Consiglio la lettura di entrambi i libri per capire un pezzo importantissimo della nostra cultura e della nostra storia.