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giovedì 2 luglio 2020

Ladra di fragole

A esattamente 20 anni dall'uscita del primo libro mi accingo a leggere il 4 libro della Harris.

Tutto è iniziato nel 1999, con "chocolat" libro di cui mi innamorai subito e a cui seguì qualche anno dopo il famoso film. 

Mi piaceva la scrittura della Harris e il libro aveva qualcosa di magico e di reale nello stesso tempo, che lo rendeva ipnotico e ti lasciava scivolare dentro la storia come una coperta calda e avvolgente.
 Seguì poi "scarpe rosse" che veramente è stato senza lode e senza infamia, tanto da farmi sembrare questo seguito quasi una forzatura a cui poi è seguito "il giardino delle pesche e delle rose".
Quando un libro che ti è piaciuto tantissimo, diventa una saga, purtroppo non hai altra scelta che continuare a leggere.

Tuttavia penso che forse alcune volte è meglio fermarsi al primo libro, sono quasi a metà di "ladra di fragole" e mi sembra solo una copia fatta male di chocolat. Ormai andrò avanti fino alla fine ma la Harris ha perso la magia e ha voluto allungare il brodo, perdendosi. 

Peccato  

La mia cara Vianne Rocher e il tranquillo villaggio di Lansquenet-sous-Tannes mi sono ancora vicino e nello stesso tempo lontano.

venerdì 19 giugno 2020

A spasso con Bob

Ho letto che è morto Bob. Ha vissuto per ben 14 anni, e ha lasciato il segno direi.
Questo è un mio vecchio post del 2014

A street cat named Bob

«Lui è quello per cui mi sveglio ogni giorno adesso. Sarà orribile quando mi lascerà, perché so che i gatti non vivono a lungo quanto gli esseri umani… Ma sicuramente lui mi ha dato la giusta direzione per vivere la mia vita.»
Una piccola storia d’amore.

Questa bellissima storia è la mia prossima lettura.

Una storia vera. James lotta contro la dipendenza dalle droghe, ma, una notte, dopo essersi trasferito in un appartamento a Tottenham, appare un gatto alla sua porta, gravemente ferito a una gamba. James capisce che deve aiutarlo immediatamente e senza perdere tempo lo accoglie in casa e lo cura. Da allora, Bob non lo ha più lasciato, seguendolo di sua iniziativa persino sull’autobus e sulla metropolitana.
«Siamo due anime ferite che cercano qualcuno di cui fidarsi… e noi ci fidiamo l’uno dell’altro. Io ho ancora difficoltà a fidarmi delle persone. Ma una cosa di Bob è che lui non mi mente mai. Anche quando non ha fame, lui non finge di averne, come fanno la maggior parte dei gatti, solo per essere ingordi.» James non è religioso, ma crede nel karma. «Penso che devo aver fatto qualcosa di buono perché lui si sia fatto avanti.»

Ecco queste due anime si sono incontrate e aiutate a vicenda. A volte succede anche con gli umani.

 Il libro, "A Street Cat Named Bob", è stato scritto da James in collaborazione con lo scrittore Garry Jenkins in un caffè di Islington: ha ottenuto il contratto editoriale grazie all’agente letteraria, Mary Pachnos, che era solita passare davanti a lui ogni giorno e si incuriosì al punto di chiedergli la storia della sua vita. «E’ una storia dannatamente buona, non è vero?» le disse James, «Ed è la verità, ogni parola. E’ una vita abbastanza interessante quella che abbiamo fatto io e Bob.»

...è fantastico questo gatto!!! Sono già innamorata

venerdì 12 giugno 2020

Risveglio a Parigi

Margherita Oggero
Mondadori, 2009
 Ennesimo libro preso in bookcrossing biblioteche di Roma - Avevo già letto qualcosa della Oggero e quindi ho pensato di andare sul sicuro.
Devo dire un po' noioso e in fondo essendo la storia della vita di 4 amiche, mi annoiano questi romanzi che raccontano di famiglia, vita, amori, delusioni e insomma vita vissuta. 
Mi scivolano nella più totale indifferenza facendomi sospettare una forma di autotismo letterario, che proprio non mi sfiora.
La fine del libro quasi un sollievo ...

Speravo di risvegliare in me la nostalgia di Parigi, solo un anno fa ero lì con mio figlio ed è stato veramente bello. 

Mi dispiace solo di non aver fatto in tempo a vedere la reggia di Versailles.

giovedì 11 giugno 2020

La bambina del lago

Appennino emiliano: dall’alto di uno sperone di roccia, Paese Nuovo sovrasta un lago. Sotto le sue acque si intravedono la chiesa e il campanile di un altro villaggio, Paese Annegato, che venne sommerso quando fu costruita la diga per imbrigliare le acque del fiume Cigolo. Nell’estate del 1930 il dottor Astorre si trasferisce qui come medico condotto. Lo accompagna la figlia Aladina, dieci anni, molto provata dalla perdita della madre, che è nata e cresciuta proprio a Paese Nuovo.


Mi fa uno strano effetto leggere le favole, non sono una adolescente e sono grande, diciamo, ma mi affascina molto la mia reazione a questo tipo di libri. Lo faccio anche con curiosità, e quindi mi è piaciuto molto leggere questo libro.
C'è un po' di storia, il fascismo nella struttura sociale dei paesi, le mentalità e le reazioni di fronte a quello che i grandi non riescono a spiegare con la logica e la ragione.
In fondo ogni paese di montagna ha una leggenda e una storia da raccontare, magia e mistero.
Chi siamo noi per dire che non è Vero?

venerdì 22 maggio 2020

Tarantismo


Più leggo e più riconosco di ignorare tante cose.
La Taranta.
Pensavo fosse solo un ballo tipico del territorio del Salento e delle sue fascinose tradizioni popolari e invece scopro ora che è collegato al Tarantismo.

Dalla nascita incerta tra IX e XI secolo, questo misterioso fenomeno culturale prende il nome dalla malattia contratta, secondo la tradizione, attraverso il morso di ragni velenosi. Preda di queste punture erano quasi esclusivamente le donne nei mesi estivi, impegnate nei campi per la mietitura del grano. Gli effetti del pizzico si manifestavano nella tarantata, questo il nome della ragazza colpita dal morbo, attraverso una combinazione di malessere psicologico e di dolore fisico così forte da farla cadere in uno stato di incoscienza tormentato e convulso. I familiari della malcapitata si appellavano allora a una cura tutt’altro che farmacologica, ma dagli effetti miracolosi: la musica. Al cospetto della vittima, suonatori e cantanti specializzati intonavano melodie incalzanti, le pizziche, per vanificare gli effetti del veleno, in un vero e proprio esorcismo musicale. Al ritmo veloce di strumenti e voce, la tarantata ritornava piano piano in sé e si lanciava in una danza sfrenata, fatta di salti, giravolte e piedi che pestano con forza il terreno, come a schiacciare un ragno.
Per quanto fosse efficace, la terapia aveva però dei punti deboli. Potevano volerci giorni prima di liberare una donna dallo stato di trance, dal momento che a ogni tipologia di morso corrispondeva una particolare sonorità che bisognava trovare senza l’aiuto della paziente (non così diverso dalla medicina: a ogni sintomo la sua cura!). Ma soprattutto l’effetto della pizzica era temporaneo. Ogni anno, all’inizio dell’estate, bisognava rinnovarlo e si consigliava alla tarantata un pellegrinaggio alla cappella di S. Paolo a Galatina, nelle vicinanze di Lecce, da svolgere il 29 giugno, giorno in cui il paese celebra il santo protettore dei pizzicati.
Gli ultimi episodi di queste possessioni risalgono agli anni ’60 e, a oggi, possiamo affermare che il malore di generazioni di donne pugliesi non fosse scatenato dalla puntura di un ragno, né tantomeno da episodi di isteria femminile. Sembra che il Tarantismo fosse una tradizione sfruttata da molte donne per manifestare le proprie frustrazioni e difficoltà in secoli in cui la loro posizione sociale era subordinata a quella degli uomini.

La leggenda del morso della tarantola nasconde in sé una storia fatta di lotte e di ricerca di emancipazione, ma soprattutto è messaggera del potere terapeutico della musica, che può alleviare i dolori più profondi.

Io so solo che mi incanto a vedere le danzatrici perchè nei loro passi sento e vedo una libertà selvaggia che è dentro ogni donna.


venerdì 24 aprile 2020

Fiori dalla cenere... il coraggio delle donne in guerra























Lo ammetto, sono stata attratta dalla copertina e dalla fascetta rossa "1 milione di copie vendute" "in corso di traduzione in 27 paesi". Insomma, ho pensato ... sarà sicuramente un capolavoro.
Così sono entrata dentro questo libro, piena di aspettive, e invece...


Dopo le prime pagine si è già catapultati nel fulcro del racconto, i capitoli sono alternati; il capitolo di Charlie raccontato in prima persona e ambientato nel 1947, e i capitoli che  parlano di Eve ed è narrato in terza persona (1915 e il 1917).
Giuro che mi sono annoiata tantissimo. La base storica c'è ma questa scrittrice non è stata degna di raccontare questo. Nel libro vengono narrati in versione romanzata fatti realmente accaduti e citate e approfondite le vite di personaggi realmente esistiti, la più importante fra tutti la grande Louise de Bettigenes, la più importante spia della Prima Guerra Mondiale.
La rete di Louise comprendeva 100 agenti a Lille e nelle aree circostanti e per conto degli inglesi monitorava le attività dell’esercito tedesco e inoltre aiutava i soldati alleati a fuggire dai territori occupati: secondo la Western Front Associationi la rete Alice abbia salvato la vita a più di 1.000 britannici.
Louise, nome in codice Alice, aveva capito il valore aggiunto delle donne in ambito spionistico: non destavano sospetti in circostanze in cui un uomo sarebbe stato fermato, potevano contare sullo stereotipo della donzella indifesa per sottrarsi agli sguardi indagatori, e il loro desiderio di combattere per la patria era ardente quanto quello dei mariti, dei padri, dei fratelli e dei figli. La “rete di Alice” – questo il nome con cui sarebbe passata alla storia – si guadagnò la fama di più efficiente organizzazione spionistica bellica, soprattutto grazie all’impegno della fondatrice e delle sue compagne. Queste donne non si accontentarono di aspettare il ritorno dei loro uomini: si gettarono a capofitto nella guerra e trovarono un modo tutto loro per combatterla.

Quando ho terminato il romanzo è arrivata la parte più bella e decisamente interessante.

La scrittrice riporta alla fine tutti i cenni storici di queste grandi donne e delle loro vite. Ecco, li libro vale solo per questo. Quindi che dire, lo consiglio, in fondo non tutti abbiamo gli stessi gusti.

Per non dimenticare il sacrificio e il coraggio di donne che hanno combattuto così, spie per il loro Paese, rendendo un grande servizio per le operazioni di guerra.

Appena terminato il libro ho letto questo articolo sulle partigiane e ho collegato i fili.
I fili che non si studiano a scuola, i fili che non scrivono nei libri e lo devi scoprire tu negli anni semplicemente leggendo.
Anche in questo libro c'è la vergogna di fare le spie. Perchè sei una puttana per tutti e basta anche se poi i tuoi capi ti elogiano e ti appuntano una bella medaglia.

Uccise, torturate, stuprate: le donne partigiane che pochi ricordano

Hanno salvato ebrei, fatti fuggire gli uomini durante i rastrellamenti. I nazi-fascisti infierivano su di loro

Un gruppo di partigiane

Carla era un’infermiera alquanto atipica, curava, cuciva, correva, rischiava.
Non era armata, come Tina, una sua compagna, che in bicicletta percorreva le stradine fra Treviso e Padova, per portare radio ricetrasmittenti, a continuo rischio cappio, e che un giorno decise di farsi dare un passaggio da un camion di nazisti, aggirandoli con la scusa di avere un sacco di libri pesanti dentro la valigia.
Nello stesso periodo Adriana riparava i ricercati dalla gestapo, e quando la banda Koch la catturò, questa donna bellissima fu “stesa su un letto di chiodi e battuta con un arnese che serviva per il camino, persi tutti i denti, mi spaccarono quasi tutte le costole, ma io non parlai, per otto giorni non parlai…. Ah, scordavo, mi strapparono anche tutti i capelli, ma io non parlai”.
Quelle che andavano sui monti si occupavano di tutto, quelle che restavano in citta’ si occupavano di tutto.
Ines, Gina e Livia restarono in città, e si inventarono la prima forma di resistenza pacifica; appena avevano il sentore che nel paese limitrofo le Ss stavano organizzando una rappresaglia, davano l’allarme, tutti gli uomini abbandonavano l’abitato, e loro, donne bellisssime, si schieravano di fronte alle loro case, tenendosi per mano, aspettando i tedeschi cantando le canzoni che di norma si sentivano nelle risaie. Tutte senza armi.
Paola lavorava al Comune, a stretto contatto con i fasci, e riusciva a far sparire centinaia di stati famiglia bollati come “di razza giudia”, alcuni li bruciava, altri li faceva falsificare, Fam. Goldstein diventava Fam. Bianchi, e così salvò migliaia di esseri umani facendoli transitare per i valichi svizzeri, salvo poi essere impiccata in pubblica piazza.
C’era Clorinda, combattente, che venne catturata, stuprata, azzannata dai cani della gestapo, torturata dal capo nazi, infine impiccata pure lei.
Alla fine di queste donne rimase poco o nulla, si contarono in circa diecimila le vittime deportate, torturate, seviziate e macellate come bovini, talune si salvarono, e a parte casi rarissimi (leggi Nilde Iotti e Tina Anselmi), tornarono a fare i lavori di casa fra le mura domestiche, continuarono a fare la vita di prima, lavare, cucinare, badare, crescere i figli, accudire il focolare, senza che nessuno dicesse loro grazie.

Su 70 mila donne solo 18 furono insignite di medaglia al valore, e null’altro.

Dopo il 25 aprile vi furono le sfilate nelle città liberate, prima gli alleati, poi i gruppi partigiani composti dagli uomini, in fondo alla parata le donne bellissime, solo alcune e non sempre, dato che persino il Pci all’epoca considerava scostumato far sfilare una donna che era stata sui monti con gli uomini, e le medesime venivano insultate dalle donne che non avevano mosso un dito, al grido di “puttane” quando andava bene, e questo comportamento ignobile fece sì che le storie uniche e irripetibili di questo meraviglioso esercito di eroine finisse irrimediabilmente nel dimenticatoio.

Ovviamente poi niente succede per caso.

In questi giorni oltre al libro, agli articoli sullo stato-denuncia della considerazione delle donne partigiane, arriva anche in tv, nel "Paradiso delle Signore" una puntata sulla commemorazione del 25 aprile e testimonianze di partigiane, partigiani.
La serie tv è ambientata negli anni '60 ma è molto triste pensare che ad oggi abbiamo perso quasi tutta la memoria con questa pandemia che ha decimato gli anziani e quindi la nostra memoria storica.





















L’Anpi riconosce35 mila partigiane combattenti, che hanno ottenuto il ruolo di tenenti, sottotenenti o al massimo maggiori, e 20mila “patriote”, con compiti di supporto, assistenza e organizzazione. Molte donne si rifiutarono di chiedere un riconoscimento a guerra terminata: molte, come il personaggio di Renata Viganò, sentivano solo di aver fatto quello che andava fatto.
Oltre a quelle che si trovarono a combattere per caso”, per senso del dovere o per seguire mariti, fidanzati e talvolta figli, ci furono anche donne già impegnate in politica o nelle associazioni comuniste e cattoliche che pretesero un ruolo più attivo all’interno dei nuclei partigiani. Da queste esperienze nacquero i Gruppi di difesa della donna (Gdd), un’associazione comunista e femminista fondata da Lina Fibbi, Pina Palumbo e Ada Gobetti, che partecipò a molte azioni di sabotaggio e lotta armata, e l’Unione donne italiane di sinistra (Udi). Anche molte donne cattoliche parteciparono alla Resistenza, mettendo a frutto le esperienze maturate nella Gioventù femminile di Azione Cattolica (come ad esempio la futura ministra della Sanità Tina Anselmi). Se questi gruppi nacquero con l’esplicito obiettivo di aiutare gli uomini impegnati nella Liberazione, già dal 1944 si organizzarono in maniera più autonoma e, oltre a partecipare attivamente alle azioni, fornirono supporto alle vedove, alle contadine o alle madri lavoratrici. Nel 1944 l’Udi fondò anche il proprio giornale clandestino, Noi donne, in cui si discuteva di politica e del ruolo della donna, si commemoravano le cadute e si riportavano le notizie sulle lotte femminili. I Gdd organizzarono anche numerosi scioperi e manifestazioni, su esempio della “rivolta del pane” del 16 ottobre 1941, quando un gruppo di donne parmensi assaltò un furgone della Barilla per ridistribuire il pane alla popolazione.

Di alcune figure straordinarie si ricordano ancora gli atti coraggiosi: Mimma Bandiera, la partigiana bolognese che, una volta catturata, resistette per sette giorni alle torture senza mai tradire i propri compagni. O Carla Capponi, dei Gruppi di azione patriottica (Gap) romani, che prese parte all’attentato di via Rasella. Quest’ultima ci ha lasciato un’autobiografia molto importante per capire il ruolo delle donne nella Resistenza, Con cuore di donna. Capponi racconta la difficoltà nello stabilire un rapporto paritario con i compagni del Gap, la loro riluttanza a consegnarle un’arma (che infatti dovrà rubare a un soldato fascista su un autobus affollato), ma anche il vantaggio di essere una bella ragazza in grado di distrarre fascisti e tedeschi, unito alla costante minaccia della violenza sessuale.

mercoledì 25 marzo 2020

La Locanda dove il mare parla piano

Allora stiamo parlando di un romanzo stile americano, per intenderci.

In questo periodo sto riprendendo in mano vari libri iniziati, insomma ho lavato le tende, rammendato tutti i panni e quindi ci stà no?!!!

La solita storia della ragazza tradita dal marito con una sua collega, che si ritrova con una casa ereditata da una zia che non sapeva di avere in America (che culo!!), una bellissima casa in riva al mare, abitata di 5 vecchietti amici della zia.

Al di là della trama, questo libro ha un grande vantaggio. Ti fa sognare un possibile stile di vita, una scelta di solitudini che si incontrano per creare un gruppo di persone anziane che tutto sommato non si fanno solo compagnia. E' molto simile alla teoria delle comuni, forse in Toscana in qualche casale, qualcuno lo ha fatto o lo fa. Ecco c'è nostalgia di un desiderio di convivenza diverso dallo stare in casa da soli e aspettare di morire. Sicuramente anche la storia di un quadro famoso e plurimiliardario che era in possesso della zia defunta, ti tiene abbastanza ancorato alla suspense della trama, quasi fino alla fine... Quindi per una lettura leggera e appassionata, lo consiglio.

giovedì 5 marzo 2020

I TRENI DELLA FELICITA'


Ho appena terminato questo libro che mi ha letteralmente scaraventato nel passato. Letto con avidità, per leggere cose che ignoravo o sapevo sommariamente e anche per il piacere di credere che non tutto è perduto, se siamo riusciti a fare questo.
Un pezzo di storia italiana che quasi nessuno sembra ricordare più, storia di un’accoglienza e di quanto la cultura e la generosità di un popolo sia o sembra cambiato, da una globalizzazione, che ci ha indurito i cuori.
Resta da chiedersi perché questa storia positiva sia ancora così poco nota e perché gli stessi protagonisti, mostrino una certa difficoltà a parlarne. Umiltà o vergogna? Perchè essere poveri è ancora una vergogna da nascondere, essere ladri invece no.
L’altruismo e la solidarietà oggi sono quasi considerate pecche dell’animo, una specie di pericolosa malattia chiamata “sensibilità”, o “empatia”, una stortura capace di portare il Paese intero alla rovina, vittima di approfittatori e speculatori.
Diventa allora sempre più necessario ricordare di quando queste erano le fondamenta del vivere civile ed erano sentite come un dovere.
Il passato ha ancora qualcosa da insegnarci, se non ce l’ha il presente.


Nell’immediato dopoguerra, un vecchio progetto di solidarietà nato alla fine del 1946 dall’idea del “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli” per ospitare, nutrire e curare i bambini napoletani presso le famiglie contadine emiliane, meno provate dalla guerra, creo’i famosi “treni della felicità”.
L’iniziativa traeva spunto da altre simili: bambini diretti in Emilia-Romagna erano partiti da Roma e provincia fino a Velletri, Cassino e Latina. Nel corso della sua durata, il progetto del Comitato salvò concretamente dalla fame, analfabetismo e malattie oltre 70 mila bambini, con il coinvolgimento anche di altre regioni, come la Toscana, le Marche, l’Umbria e la Liguria.
Confrontandoci con la realtà italiana attuale, questa sembra una favola, “una bella favola iniziata nel lontano 1947”. Racconta di una straordinaria esperienza politica e sociale, voluta, promossa e organizzata dal Partito comunista nei primi anni del secondo dopoguerra, quando Napoli si trovava in una condizione difficilissima. I bombardamenti subìti, le razzie naziste nella parte finale dell’occupazione dopo le Quattro Giornate e la povertà, avevano messo in ginocchio la più grande città del Sud. “Nell’immenso tessuto urbano che rimarrà per mesi privo di energia elettrica e di trasporti pubblici, gli abitanti sloggiati dai bombardamenti si ammucchiano nei ricoveri antiaerei, nelle stazioni della metropolitana e delle funicolari, tra le macerie, nelle grotte, nei cunicoli […]. La scarsezza di acqua costringe donne, vecchi e bambini a lunghissime file dinanzi alle poche fontane pubbliche ancora in funzione. Se il servizio di nettezza urbana è inesistente, tragica è la situazione sanitaria : gli ospedali semidistrutti mancano di farmaci […]. Miseria e vergogna non nascono da una vocazione patologica della gente napoletana, ma semplicemente dallo sfacelo”.



Il Comitato nacque in questo contesto da un nutrito gruppo di intellettuali capeggiati da Gaetano Macchiaroli, insieme ai partiti di sinistra e ad altre forze democratiche e sindacali come l’Udi, Unione Donne Italiane. L’idea era quella di far uscire dalla durezza della condizione post bellica quanti più bambini napoletani fosse possibile, dando loro l’occasione di conoscere, per la prima volta, un’esperienza di vita più adatta alla loro età, accogliendoli in città e regioni del centro-nord del Paese nelle quali avrebbero trovato migliori possibilità di nutrirsi e di crescere. Non che a quell’epoca altrove si navigasse nell’oro, ma almeno si riusciva in qualche modo a mettere insieme il pranzo con la cena.
I bambini furono individuati, “ripuliti”, accompagnati da schede di riconoscimento, forniti di cappotti e indumenti e preparati per lasciare Napoli. Con quali pensieri? I bambini di un tempo ricordano e raccontano la paura della partenza – a nessuno di loro era chiaro dove stessero andando e perché – ma anche la meraviglia dell’arrivo. Coperte rimboccate, stanze calde, giocattoli di stoffa e non di carta, scuole accoglienti, salami appesi alle travi della cucina, uova fresche e latte: ai loro occhi  sembravano dei veri e propri miracoli. Ma sono soprattutto le memorie della famiglia e della cura, scoperti per la prima volta insieme al senso di responsabilità degli adulti nei loro confronti, a essere ricordati con commozione: “A Napoli invece ognuno doveva preoccuparsi di se stesso,” raccontano. Allo stesso modo arrivano le testimonianze delle famiglie affidatarie: “Io stavo per dire, molto a malincuore, di no, pensando alle precarie condizioni, ma fu tale la gioia all’idea di fare del bene”.
Il ritorno a Napoli fu, per tutti, bambini e adulti che si erano presi cura di loro, combattuto: i primi dovettero più o meno consapevolmente arrendersi e rinunciare agli agi non solo materiali ma anche emotivi, spesso richiamati in città dai genitori perché dessero una mano alla famiglia d’origine lavorando; i secondi, invece, dovettero lasciarli tornare in quel contesto che era ancora poverissimo. Eppure non vi è traccia alcuna di pregiudizio verso il Sud o di due diverse “Italie” che non riescono a parlarsi: piuttosto, a emergere sono una serie di legami fortissimi appena sotto la superficie degli eventi, mossi dalla solidarietà e diventati, nel corso del tempo, un bel ricordo e, in alcuni casi, una solida amicizia.


Prima di questo libro, già ero venuta a conoscenza di questo fatto storico, leggendo il bellissimo libro “I comunisti mangiano i bambini”, in cui con orrore ho appreso il grande ostruzionismo e strumentalizzazione politica della Chiesa e dei democristiani verso i comunisti, sempre dipinti come “mangiatori” di bambini. I cattolici denunciarono una “tratta dei fanciulli”, mentre diverse testate contribuirono a diffondere quella che oggi chiameremmo una fake news, e cioè che i piccoli accompagnati ai treni in partenza per l’Emilia sarebbero stati, in realtà, spediti altrove dalla Sicilia, e cioè in Russia. I bambini furono letteralmente terrorizzati da preti e suore e questi poveri bambini partirono con dei traumi enormi. Gli avevano detto che gli avrebbero tagliato le mani e altre cose orribili che facevano i comunisti. Il lavoro di ricerca dei bambini in condizioni più disagiate fu dunque complicato dalla propaganda negativa che raggiungeva le famiglie soprattutto attraverso le parrocchie, ma il risultato, dopo la partenza del primo convoglio, superò ogni aspettativa.
Grazie ai controlli medici fatti ai bambini prima della partenza fu possibile avere una stima precisa di malattie e infezioni e dopo le diffidenze iniziali, si riuscì a coinvolgere anche gli oppositori politici della sinistra come la Pachiochia, una capopopolo monarchica che, una volta appurata la natura benefica dell’iniziativa, si offrì per collaborare in prima persona con gli organizzatori.
Fanno tenerezza tanti episodi raccontati nel libro e vissuti in prima persona da questo bambino napoletano (che deciderà poi di rimanere con la famiglia emiliana), come la meraviglia dei bambini che, davanti alla neve, vista per la prima volta dal finestrino del treno, la scambiarono per ricotta. In un’epoca in cui si era ancora molto distanti per lingua e cultura, si fece un vero miracolo di misericordia.



Ignoravo, storicamente parlando, che quella esperienza del Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli fu riproposta anche in altre situazioni di emergenza, come durante l’alluvione del Polesine nel 1951 e in seguito allo sciopero di San Severo nel 1950, a Foggia, che portò all’arresto di 184 persone, tra cui molte donne costrette a lasciare i propri figli che vennero temporaneamente “adottati” da famiglie del centro-nord Italia.


Consiglio la lettura di entrambi i libri per capire un pezzo importantissimo della nostra cultura e della nostra storia.